Alessandro
Pavolini Ministro della Cultura Popolare
Firenze 1903 - Musso 1945
Alessandro Pavolini nasce a Firenze il 27 settembre del 1903.
E' di ottima famiglia altoborghese; suo padre, Paolo Emilio,
che diventerà anche Accademico d'Italia, è un
indianista e orientalista di fama internazionale. Alessandro
fin da giovanissimo manifesta la sua vocazione per l'attività
letteraria. A dodici anni fonderà un giornaletto scolastico
in cui scriverà articoli interventisti. E' uno studente
brillante, si laurea in Giurisprudenza e in Scienze Politiche,
frequentando due atenei, quello di Firenze e quello di Roma.
E proprio a Roma, per ragioni di studio, il giovanotto si
trova nel giorno "fatale" del 28 ottobre del 1922.
Si accoda alle colonne fiorentine di camicie nere per la parata
finale, quando Mussolini ha già ricevuto la nomina
a Primo Ministro, la sua marcia su Roma è tutta qui.
I richiami allo squadrismo che Pavolini farà poi, nel
periodo repubblichino, sono di tipo puramente intellettuale
e morale; non fu mai squadrista, nel senso effettivo e violento
del termine. Del resto, tra lui e coloro che marciarono su
Roma c'era un abisso; lo stesso abisso che separava i due
tronconi del fascismo a Firenze, quello popolare di Tullio
Tamburini (che aveva tra i suoi fedeli anche elementi come
Amerigo Dumini), e quello aristocratico e altoborghese, guidato
da Dino Perrone. Compagni che, pur con i suoi poco onorevoli
precedenti (famoso come donnaiolo, ex-ufficiale di cavalleria,
era stato degradato per debiti di gioco), aveva pur sempre
un titolo di marchese, anche se la sua fama di donnaiolo lo
rendeva popolare anche tra i ciompi di Tamburini. In politica
con i fascisti, prevaleva a Firenze la fazione aristocratica,
ed infatti il federale di Firenze sarà un altro marchese,
Luigi Ridolfi. E fu proprio quest'ultimo a introdurre Pavolini
nella politica attiva, chiamandolo al suo fianco nel 1927
come vice-federale. Era una naturale collaborazione tra i
personaggi della Firenze-bene, chiusa ed esclusiva, in cui
l'emergente giovanotto, elegante, ottimo giocatore di tennis,
brillante conversatore, aveva il suo giro di amici (tra cui
anche Carlo e Nello Rosselli). Collaboratore di riviste letterarie,
scrittore di saggi politici, si cimentò anche nel romanzo
e nel 1928 ottenne un primo buon successo con "Giro d'Italia".
Nel 1929 il marchese Ridolfi lascia la carica di federale,
passando il testimone a Pavolini che diviene così,
a soli ventisei anni, la massima autorità fascista
di Firenze. Fu un federale anomalo, infatti, mentre il fascismo
procedeva sulla strada del totalitarismo, entrando in tutta
la vita degli italiani, regolandola dalla nascita alla morte,
mentre Achille Starace, segretario nazionale del partito,
imperversava con le sue idee incentrate sullo sport e la creazione
di divise (fu uno dei più infaticabili creatori di
uniformi sempre più complesse e, fanatico dello sport,
impose all'Italia, gerarchi in testa, un salutismo a dir poco
ridicolo), mentre il regime diveniva sempre più appannatore
delle coscienze, Pavolini manteneva una sorta di aristocratico
distacco, convinto di una supremazia comunque indiscutibile
della cultura e dell'arte. Firenze, con Pavolini federale,
conobbe un grande impulso alle manifestazioni artistiche e
di costume. La mostra degli artigiani di Ponte Vecchio, l'annuale
rievocazione della partita di calcio in costume, innumerevoli
mostre d'arte, tra cui il "Maggio musicale fiorentino"
(ancora oggi una delle più importanti rassegne artistiche
a livello internazionale) furono tra le molte iniziative di
questo gerarca. E' sempre in questo periodo che Pavolini fonda
anche una rivista settimanale, "Il Bargello", ufficialmente
organo della federazione giovanile fascista, di fatto rivista
letteraria; il federale non chiede la tessera ai suoi collaboratori,
convinto com'è che l'arte sia sufficiente a distinguere
l'individuo cosa molto particolare per un fascista ora che
il fascismo era dittatura consolidata. Mussolini, dopo il
delitto Matteotti, dopo le intemperanze delle squadre d'azione
(che proprio a Firenze avevano creato gravi disordini sul
finire del 1924), col discorso del 3 gennaio del 25 aveva
posto le basi per quella conquista dello Stato di cui la marcia
su Roma non fu che un episodio. Quando Pavolini inizia ad
assumere le prime responsabilità politiche nel 27 il
fascismo è ormai consolidato come partito-stato, il
bavaglio alla stampa è già imposto, sono già
state emanate le norme sulla revisione dei passaporti, sulla
cittadinanza, è già stato istituito il Tribunale
speciale per la difesa dello Stato, è già stata
abolita l'elettività nelle amministrazioni dei comuni
con meno di 5000 abitanti (ed entro il 1929 il "podestà"
di nomina governativa sarà imposto a tutti i comuni
d'Italia). In questo clima Pavolini si distingue appunto come
elemento anomalo, anche se non si porrà mai in chiara
antitesi con il Duce, anche se non aspirerà mai a guidare
una sorta di "opposizione interna" sul tipo di quella
del ras di Cremona, il bollente Roberto Farinacci. Pavolini
che a Firenze è divenuto estremamente popolare nel
1932 viene chiamato a far parte del Direttorio Nazionale del
Partito, iniziando così "le sue frequentazioni"
a Roma, dove si trasferirà nel 1934, perché
eletto deputato. E nella capitale Pavolini incontrerà
un altro giovane "emergente" del fascismo, con cui
stringerà una grande amicizia Galeazzo Ciano. Un' amicizia
che avrà un tragico epilogo futuro, un incontro che
segnerà profondamente la vita di Pavolini. Nel 1932
Ciano è lanciatissimo da due anni ha sposato Edda Mussolini,
è quindi genero del Duce, una posizione di enorme vantaggio
per valorizzare le doti di intraprendenza e di intelligenza
che, comunque, il giovanotto mostra di avere, oltre ad essere
"figlio d'arte" suo padre Costanzo è una
delle figure più eminenti del fascismo, nonché
eroe della Grande Guerra. Anche Ciano, che è coetaneo
di Pavolini, ha fatto qualche esperienza giornalistica giovanile,
dedicandosi poi alla carriera diplomatica, nella quale brucerà
le tappe, divenendo, trentatreenne, ministro degli esteri.
Anche Ciano, come Pavolini, è una figura "anomala",
anche se la sua posizione familiare gli consente, al più,
un moderato scetticismo, non certo un'opposizione al Duce.
Pavolini deputato, grazie alla sua fama di scrittore e di
organizzatore culturale, viene chiamato a presiedere la Confederazione
Professionisti ed Artisti. E con questa carica istituisce
i "LITTORIALI", una specie di olimpiade della cultura
e dell'arte, che diverranno presto anche il luogo di espressione
di quel poco di fronda e di dissenso che era possibile in
Italia. Non mancano, da parte dei fascisti più ortodossi,
le lamentele per il carattere spesso ambiguo dei Littoriali,
nei quali si metteranno in luce anche alcuni futuri antifascisti,
e queste lamentele ne alimentano delle altre, quello sullo
snobismo di Pavolini, visto da molti gerarchi come l'uomo
presuntuoso, che si bea di se stesso, non nascondendo il suo
profondo disprezzo per Achille Starace, il segretario del
Partito, ingenuo e ignorante, tutto teso nello sforzo di essere
più mussoliniano di Mussolini. La carica consente a
Pavolini anche di scrivere sul giornale più importante,
il Corriere della Sera, lasciando il Popolo d'Italia, giornale
mussoliniano per eccellenza, ai mestieranti del regime o ai
giovani alle prime prove. Ma il livello dei suoi scritti è
sempre alto. Pavolini è arrivato al "Corriere"
perché è diventato un gerarca importante comunque
fornisce al "Corriere" ottimo materiale. Lo scrittore
e giornalista, presidente della Confederazione professionisti
ed artisti, sente però il richiamo dell'avventura militare
e parte volontario per la guerra d'Africa proprio col suo
amicissimo Galeazzo Ciano comanderà una squadriglia
aerea cui viene dato il nome di una squadra d'azione famosa
a Firenze ai tempi della marcia su Roma la Disperata. Durante
la guerra Pavolini trova anche il tempo di mandare corrispondenze
al Corriere della Sera, e dall'esperienza bellica in Africa
trarrà il suo secondo libro "La Disperata".
Finita l'avventura africana, mentre Ciano diviene Ministro
degli Esteri, Pavolini, che è ormai entrato definitivamente
nelle grazie di Mussolini, diventa una specie di "inviato
speciale" del regime. Viaggia in tutto il mondo, inviando
al "Corriere" corrispondenze che poi raccoglierà
in volume. Sono probabilmente gli anni migliori di Pavolini,
che può dare il massimo sfogo alla sua passione giornalistica,
che riceve apprezzamenti anche dai colleghi della stampa estera,
che vive insomma cavalcando il fascismo, con la coscienza
del fatto che è il regime ad avere bisogno di lui,
mentre lui stesso ha le doti che gli darebbero comunque il
successo anche senza il fascismo. In questo periodo inizia
la sua relazione con l'attrice Doris Duranti, una delle "maliarde"
del cinema italiano, concorrente di Clara Calamai in un certo
ritorno al cinema muto (nel senso che una bella donna che
si spoglia non ha in genere bisogno di pronunciare molte parole).
Il 31 ottobre 1939, in uno dei molti rimpasti governativi
in cui alcuni ministri apprendevano il giorno dopo, dalla
stampa, che "le loro dimissioni erano state accettate
da S. M. il Re e Imperatore", Alessandro Pavolini (che
di lì a poco darà alle stampe con successo il
suo ultimo romanzo, "Scomparsa d'Angela") diventa
Ministro della Cultura Popolare è il vero potere, probabilmente
la posizione più importante dopo quella del duce. Questo
perché il Ministero della Cultura Popolare, istituito
il 1° settembre del 1937, come sviluppo del sottosegretariato
alla Stampa e del successivo Ministero della Stampa, è
la più poderosa arma del Partito Fascista per il controllo
delle coscienze degli italiani. Già da diversi anni
il regime, con le norme definitive sull'Ordine dei Giornalisti
e sull'Albo Professionale (a cui devono essere iscritti obbligatoriamente
i direttori responsabili delle testate) ha iniziato il controllo
della stampa, efficacemente spiegato dallo stesso Mussolini
il 10 ottobre del 28 ad un raduno dei direttori di giornale
"il giornalismo italiano è libero perché
serve soltanto una causa e un regime è libero perché,
nell'ambito delle leggi del regime, può esercitare,
e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione".
Infatti il Ministero della Cultura Popolare è strutturato
in sei direzioni generali, per la stampa estera, per quella
nazionale, per la propaganda, per il cinema, per il turismo
e il teatro, più una per i servizi amministrativi.
Sotto la sua vigilanza operano, tra gli altri, l'EIAR (l'attuale
RAI), la SIAE (Società Italiana Autori ed Editori)
ed altri enti, tra cui addirittura anche l'Automobile Club.
Inizia per i giornali la stagione delle famose "veline",
ossia, senza eufemismi, delle direttive su cosa scrivere e
cosa tacere, oppure sul come fornire determinate informazioni.
La base giuridica per il bavaglio alla stampa è rappresentata
dall'art. 5 del R.D. 26/2/28 num. 384, che al secondo capoverso
recita "Non possono in alcun caso essere iscritti (all'Albo
dei Giornalisti) e, qualora vi si trovino iscritti devono
essere cancellati, coloro che abbiano svolto attività
in contraddizione con gli interessi della nazione". Le
domande di iscrizione sono prese in esame da una commissione
composta di cinque membri, nominati dal Ministro della Giustizia,
di concerto con quelli per l'Interno e per le Corporazioni.
La commissione esprime il giudizio dopo aver ricevuto dalla
Prefettura un'attestazione sulla "condotta politica"
del richiedente. Il "MINCULPOP", come veniva chiamato,
divenne il regolatore delle coscienze degli italiani, stabilendo
cosa si doveva sapere e cosa no. Ad esempio: 28/6/35 vietato
pubblicare le fotografie di Carnera a terra. 14/8/37 il Duce
ha fatto un viaggio in Sicilia. Vietato pubblicare le foto
che lo ritraggono mentre danza. 26/8/38 revisionare attentamente
le foto di parate militari e premilitari pubblicare solo quelle
dalle quali risultano allineamenti impeccabili. 13/6/39 ignorare
la Francia. Non scrivere nulla su questo paese. Criticare
invece sempre e comunque l'Inghilterra. Non prendere per buona
nulla che ci venga da quel paese. 13/7/39 vietato pubblicare
foto di donne in costume da bagno. Pavolini il 31 ottobre
del 1939 diventa il dominus di questo apparato col quale la
Storia non esiste più, venendo sostituita da ciò
che il Regime decide che deve essere filtrato, interpretando,
ignorando, modificando o, se del caso, anche inventando. E
infatti Pavolini inizia con l'incarico ministeriale la sua
metamorfosi, perché diviene di fatto il principale
responsabile dell'alluvione di bugie con il quale il popolo
italiano viene avviato alle armi e ad una tragedia che non
poteva essere peggiore. Quando il brillante giornalista fiorentino
assume l'incarico ministeriale il mondo è ormai in
fermento, perché l'aggressiva politica hitleriana e
le incertezze di Francia e Inghilterra sono già al
punto di non ritorno; è chiaro che difficilmente l'Italia
potrà mantenersi estranea (anche per la sua posizione
geografica) alla bufera che sta per travolgere l'Europa. A
differenza di altri paesi, in Italia la corrispondenza di
guerra non è sottoposta alla censura militare è
sempre l'onnipotente Minculpop a indirizzare e a stabilire
anche le terminologie iniziano così le preparazioni
in armi che sono "entusiastiche". Quando si parla
di sconfitte alleate, non bisogna parlare di "catastrofi"
per non svalutare le successive battaglie. Ben presto inizieranno
anche gli "arretramenti sulle posizioni prestabilite"
(eufemismo per indicare una ritirata dopo una sconfitta).
Tutto ciò in una nazione dove comunque tutto va bene,
per cui alla cronaca nera si stabilisce che vada dedicata
al massimo una colonna in quinta pagina. In Italia, viene
ribadito dal Minculpop, non esistono suicidi, né esistono
problemi con il razionamento, perché siamo pieni di
inventiva e alternative valide, anzi, abbiamo addirittura
dei vantaggi alimentari se, al posto del caffè, iniziamo
ad usare vari surrogati le cui virtù erano state finora
poco sfruttate. E se le città conoscono la tragedia
dei bombardamenti, niente paura la prima cosa da fare è
stendere strisce di nastro adesivo sui vetri delle finestre,
per impedirne lo scoppio, e queste strisce possono mettersi
sia in orizzontale che in verticale, o addirittura possono
essere l'occasione per formare disegni ornamentali. Una domanda
sorge spontanea come può un uomo di cultura subire
una simile metamorfosi e divenire ad un certo punto l'organizzatore
dell'inganno di tutta una nazione? E' francamente difficile
immaginare un Pavolini succube del Duce. Troppo forte era
la personalità del fiorentino per pensarlo come un
docile strumento nelle mani di Mussolini. Viene più
da pensare che con la Guerra Pavolini abbia trovato finalmente
la sua dimensione. E se la guerra d'Africa (in cui comunque
Pavolini si era comportato da valoroso) era stata veloce,
limitata e di esito abbastanza scontato, qui invece ci si
avvia, finalmente, ad una Guerra Totale, ad una sorta di lavacro
sacrificale in cui confluiscono tutte le tensioni, le angosce,
gli smarrimenti spirituali del novecento, il secolo del futurismo,
ma anche del decadentismo, di D'Annunzio e di Nietzsche, del
crollo delle certezze mai sostituite da altri punti fermi.
La Guerra è quindi un fatto positivo in sè stesso,
a prescindere dalle reali possibilità di vittoria,
dal sacrificio che comporterà, dalle vite umane che
spezzerà. E' un fatto estetico che trova in se stesso
la sua ragion d'essere. Se Pavolini fu fascista pavoliniano,
e comunque fascista anomalo, in tempo di pace, ora, in tempo
di guerra, diviene fascistissimo. Perché il Duce gli
ha dato lo strumento che ancora gli mancava la Guerra, interessante
fu una valutazione di Pavolini su Hitler (espressa sul finire
degli anni 30, quando il riarmo della Germania era completato
e le mire belliche del dittatore tedesco erano chiare) "l'oscuro
milite... che si oppone a tutto un mondo tramontante e a tutto
un mondo mal neonato... un uomo solo, diverso fin nello stile
mentale... apparizione nuova e sorprendente in mezzo alle
facce lardose e sfocate della dirigenza democratica e a quelle
sigillate, d'acciaio, del prussianesimo tradizionale e vetusto...",
Pavolini si sofferma su valutazioni "filosofiche"
della figura di Hitler, il quale rappresentava di sicuro una
novità nel panorama politico; ma si trattava della
novità che stava trascinando il mondo nella tragedia,
e probabilmente anche questo, o soprattutto questo, fa parte
del suo fascino, superando gli aspetti deteriori dell'uomo
fondamentalmente ignorante, circondato da una corte di figuri
senza scrupoli, di quello stesso stampo che avrebbe, qualche
anno prima, disgustato l'esteta. Ma Pavolini è ormai
la Guerra. E difende la Guerra contro ogni evidenza infatti
quando Pietro Badoglio, che non poté o non volle distogliere
il Duce dall'intervento a fianco dei tedeschi, ha finalmente,
nel novembre del 1940, un risveglio di coscienza di fronte
alla tragedia dei soldati italiani massacrati inutilmente
in Grecia e si rivolge per uno sfogo proprio al Ministro della
Cultura Popolare, questi fa una "spiata" in piena
regola a Mussolini, che destituisce immediatamente il Maresciallo
"disfattista" dalla carica di Capo di Stato Maggiore
Generale. Di menzogna in menzogna il popolo italiano vede
aumentare il suo martirio; ormai è difficile tenere
nascosta una realtà che è di sfacelo e il 5
febbraio del 1943 Mussolini tenta l'ultima carta per porre
riparo al discredito in cui era ormai caduto il partito un
ampio rimpasto governativo, in cui le teste più illustri
che cadono sono proprio quelle di Ciano (relegato a fare l'ambasciatore
presso la Santa Sede) e di Pavolini (al quale viene assegnata
la direzione del quotidiano "Il Messaggero"). Pavolini
riprende così il suo vecchio mestiere di giornalista,
portandovi tutto il suo impeto bellicista, e il Messaggero
diviene subito un foglio di battaglia. Ma i tempi del redde
rationem sono vicini. Il 25 luglio di quello stesso anno avviene
l'incredibile il Gran Consiglio del Fascismo si trasforma
da assemblea di "yes-men" nell'organo che esautora
Mussolini l'ordine del giorno proposto da Dino Grandi ottiene,
con diciannove voti, la maggioranza. Il giorno dopo il dittatore
viene arrestato ed inizierà le sue peregrinazioni carcerarie
che lo porteranno a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, mentre
l'incarico di governo viene affidato al Maresciallo Badoglio.
8 SETTEMBRE 1943 - Nella confusione che seguirà (favorita
anche dal primo infelicissimo proclama del nuovo capo del
governo, con la famosa frase "la guerra continua"...)
l'ordine di Badoglio di arrestare Pavolini non viene eseguito
e questi riesce a riparare in Germania. A Konigsberg si incontrerà
col figlio del duce, Vittorio, e con gli altri gerarchi che
avevano scelto la stessa via di fuga. Da una radio tedesca
Pavolini e Vittorio Mussolini si affannano a spiegare al mondo
che il fascismo non è morto, finché il 15 settembre
1943 gli italiani sentono di nuovo provenire dall'etere la
voce inconfondibile del Duce, liberato dalla prigionia del
Gran Sasso da un colpo di mano dei paracadutisti tedeschi.
Ha così inizio l'ultima atto della rappresentazione;
dalla commedia brillante degli anni 30, al dramma della guerra,
ora siamo passati alla tragedia. La Repubblica sociale Italiana
non fu altro che uno dei vari protettorati tedeschi, insieme
agli avventurieri, ai profittatori, ed insieme alla grande
massa di chi semplicemente non poteva scegliere, ci fu anche
chi aderì alla Repubblica sociale per motivi ideali
rispettabilissimi, o anche solo perché disgustato dalla
penosa figura del Re in fuga e dai voltafaccia badogliani.
Alessandro Pavolini aderì alla Repubblica Sociale con
tutto se stesso e fu lui, neo segretario del neo costituito
Pfr (Partito fascista repubblicano) a sollecitare un Mussolini
stanco, riluttante, probabilmente più che cosciente
della sconfitta totale, ad assumere la guida del nuovo regime,
essendone "il capo naturale". E' ormai la stagione
del degrado definitivo dell'intellettuale Pavolini; ci sono
fondamentalmente quattro eventi significativi in questo ultimo
periodo della vita di Alessandro Pavolini; il congresso di
Verona, costitutivo del Pfr, il processo di Verona contro
i "traditori" del 25 luglio, la costituzione delle
Brigate nere e il 25 aprile. Il 14 novembre del 43, tra le
mura di Castelvecchio, il già raffinato scrittore,
l'uomo accusato a suo tempo di snobismo intellettuale, griderà
ai congressisti "lo squadrismo è stato la primavera
della nostra vita... e chi è stato squadrista una volta
lo è sempre!". Il congresso di Verona fu una disordinata
assemblea in cui venne fuori di tutto. Mussolini non aveva
voluto neanche parteciparvi. Nell'accozzaglia di proposte
politiche, che andavano dal veterofascismo fino ad aspirazioni
confusamente comunistoidi, una promessa venne chiaramente
espressa da Pavolini "I traditori del 25 luglio dovranno
pagare!". Un concetto, questo, che era già per
altro espresso nei punti fondamentali del nuovo Stato, annunciati
per radio da Mussolini due mesi prima. Forse il duce pensava
di dare un contentino verbale ai più fanatici, confidando
poi sulla sua capacità di "addormentare"
il problema sapeva bene che il 25 luglio, ora che Grandi era
fuggito in Portogallo, si identificava soprattutto in Galeazzo
Ciano, nel marito di Edda, la sua figlia amatissima. Pavolini
invece la vendetta la voleva realmente, e lo dimostrerà
coi fatti due mesi dopo, al processo. Durante il congresso
di Verona vi fu anche il feroce intermezzo della spedizione
punitiva a Ferrara, dove era stato assassinato il federale
Ghisellini undici antifascisti prelevati dalle carceri pagarono
con la vita, fucilati per rappresaglia per un delitto di cui
non si scoprì mai il colpevole. Dalla sua posizione
di potere (di fatto era secondo solo a Mussolini, ma soprattutto
riscuoteva la fiducia dei veri padroni, i tedeschi) Pavolini
frantumò subito le speranze di chi vagheggiava una
Repubblica "Sociale" proprio per tentare una riconciliazione
degli italiani. Il solco era scavato, era profondo, e andava
riempito col sangue. Quel distacco dalla realtà, unito
ad un sempre più chiaro desiderio di autodistruzione,
si va palesando in tutte le successive scelte del segretario
del Pfr. La vicenda del processo di Verona è significativa
in tal senso. La Repubblica sociale con una mostruosità
giuridica (il decreto 11/11/43, di fatto una norma penale
con effetti retroattivi) aveva voluto dare la formalizzazione
giuridica alla vendetta, costituendo per l'occasione anche
un tribunale destinato solamente a giudicare coloro che avevano
approvato l'ordine del giorno di Dino Grandi, i "traditori"
del 25 luglio 43. Peraltro solo sei dei diciannove ricercati
erano stati arrestati; gli altri erano riusciti a sottrarsi
alla polizia fascista, che aveva però potuto mettere
le mani sul personaggio più ambìto, Galeazzo
Ciano, che non aveva esitato a cercare rifugio in Germania,
convinto com'era che la sua parentela col Duce gli avrebbe
assicurato l'impunità. Pavolini aveva personalmente
compilato la lista dei giudici per sottoporla all'approvazione
del Duce e già questa lista era significativa perché
i giudici, come del resto era previsto dalle norme istitutive
del Tribunale Speciale, dovevano essere "fascisti di
provata fede" e in particolare erano da scegliersi fra
quanti "avessero avuto a patire per la loro fedeltà
all'idea". L'esito del processo era dunque scontato,
e le tre giornate di dibattimento, vuote dal punto di vista
giuridico e anche sotto il profilo sostanziale erano solo
per dare una parvenza di legalità. Cinque condanne
a morte, per Ciano, Marinelli, Gottardi, De Bono e Pareschi
e una condanna a trent'anni per Cianetti (che salvò
la pelle per aver ritrattato il giorno successivo la sua adesione
all'ordine del giorno Grandi) conclusero una cupa farsa giudiziaria.
E' piuttosto interessante vedere cosa successe dopo, la notte
del 10 gennaio del 1944, quando le autorità della Repubblica
Sociale si trovarono tra i piedi un ostacolo che non avevano
previsto le domande di grazia. Mancava, nel decreto istitutivo
del Tribunale Speciale, la stessa previsione delle domande
di grazia a chi andavano dunque rivolte, qual'era l'autorità
che poteva ancora decidere della sorte dei cinque condannati?
L'avvocato Cersosimo, istruttore del processo, suggerì"
a Pavolini, per analogia con le norme che regolavano il funzionamento
del vecchio Tribunale Speciale per la difesa dello Stato,
di sottoporre le domande di grazia alla massima autorità
militare territoriale, il generale Piatti del Pozzo, comandante
dell'esercito a Padova. Questi però, con l'appoggio
di un consulente legale, respinse seccamente l'incombenza
e Pavolini, che aveva con sè le domande di grazia,
iniziò una strana peregrinazione in compagnia di Cosmin,
prefetto di Verona, di Fortunato, p.m. al processo e del capo
della polizia Tamburini. Andò dapprima da Pisenti,
ministro della Giustizia, che disse che avrebbe subito sottoposto
le domande a Mussolini esattamente ciò che Pavolini
non voleva. Disse che della faccenda si era occupato esclusivamente
il partito, e che il Duce non doveva essere posto di fronte
ad una alternativa così dolorosa. Ma proprio lui, Pavolini,
come massima autorità del partito, si dichiarò
incompetente a respingere le domande di grazia. Fu interpellato
allora anche il Ministro dell'Interno, Buffarini Guidi, il
quale a sua volta ebbe la pensata di scovare un comandante
militare disposto ad assumersi la responsabilità dell'esame
delle domande. Dopo varie telefonate ed altre peregrinazioni,
Pavolini riuscì a mettere le domande in mano al console
della milizia Italo Vianini, ispettore della V Zona, e quindi
competente per territorio. Così, con una procedura
contorta (le domande non furono espressamente respinte ma
semplicemente "non inoltrate", e con lo stesso provvedimento
Vianini ordinava l'esecuzione della sentenza) i cinque condannati
furono avviati alla morte. Pavolini avrebbe potuto salvarli
nessuno, nella Repubblica sociale, sapeva di preciso dove
risiedesse l'autorità. Soprattutto avrebbe potuto salvare
il suo grande amico, Ciano (gli altri imputati, con l'eccezione
di De Bono, erano degli sconosciuti al grande pubblico), l'uomo
contro il quale era di fatto celebrato il processo. Non si
può certo ipotizzare che Pavolini nutrisse per Ciano
l'odio, mai nascosto, che avevano tanti altri fascisti il
genero del Duce era considerato infatti un arrampicatore,
un profittatore, tanto più meritevole di punizione
ora, per i fascisti "puri e duri" della Repubblica
Sociale. Assumendosi la responsabilità di accogliere
le domande di grazia (era stato lui stesso a obiettare a Pisenti
che "la faccenda era di competenza del partito")
Pavolini avrebbe potuto mostrare che il nuovo stato fascista
era in grado di punire, con la gravità della sentenza,
ma anche di essere magnanimo. Decretando di fatto la morte
del suo più caro amico, Pavolini inizia a uccidere
anche se stesso. Ma la sua era ormai una logica di morte,
di una morte che doveva "purificare". Era la stessa
logica che fu alla base della costituzione e dell'attività
delle "Brigate nere". che sorsero, col decreto num.
446 del 30-6-44, come trasformazione del Partito in unità
militari i commissari federali diventano comandanti di brigata.
Tutti gli iscritti al Pfr, di età compresa tra i 18
e i 60 anni, possono arruolarsi nelle Brigate nere. Da subito
la totale inconsistenza militare di queste formazioni fu chiara
era del resto impensabile che fosse sufficiente stabilire
con decreto che "i commissari federali assumono la carica
di comandanti di brigata" per trasformare in combattenti
burocrati, ex- squadristi delusi che mordevano il freno. E
tanto più questo era impensabile per un uomo intelligente
come Pavolini, già ufficiale dell'Aeronautica, di sicuro
conscio del fatto che la situazione militare era al collasso
e che di fronte all'avanzata alleata nella Penisola le ultime
tenui speranze potevano essere riposte, al più, nelle
quattro divisioni italiane che stavano terminando il durissimo
addestramento in Germania, e non certo in guerrieri improvvisati,
dichiarati tali solo perché di sicura fede fascista.
Gli stessi compiti istituzionali delle Brigate nere erano
poco chiari in teoria dovevano essere unità combattenti,
e ne veniva escluso l'impiego per azioni di polizia. Di fatto
i tedeschi non le vollero mai al fronte e i combattimenti
si svolsero solo contro le formazioni partigiane. Ma soprattutto
le Brigate Nere divennero il punto di incontro di tutto quell'universo
represso di vecchi squadristi delusi, di giovani sbandati
inquieti, nonché (cosa che non deve stupire nel caos
organizzativo della Repubblica sociale) anche di militari
di altri corpi, che in alcuni casi erano addirittura disertori.
Poiché in ogni città dove esisteva una federazione
del Pfr poteva sorgere una Brigata nera, e questo avveniva
sulla base di iniziative dei vari "capi" locali,
si ebbero le cose più strane caporali che si autonominavano
colonnelli, o (come avvenne ad esempio a Verona) un maresciallo
di marina al comando di un reggimento. Del resto ciò
avveniva in modo "legale" perché la norma
istitutiva del nuovo corpo armato prevedeva che i gradi fossero
attribuiti per "assimilazione", ossia in base alle
funzioni rivestite. Come dire se ti trovi a comandare un migliaio
di uomini, sei automaticamente almeno tenente colonnello.
Questo guazzabuglio, era malvisto, dai tedeschi, che peraltro
non impedirono la nascita delle formazioni nere, convinti
che servissero comunque a mantenere sotto il controllo della
paura una popolazione sempre più insofferente. Le controllavano
e le utilizzavano nelle operazioni di rastrellamento. Ma le
Brigate nere ben presto furono malviste anche dalla popolazione,
per i troppi abusi commessi da queste formazioni in cui la
disciplina militare era spesso pura teoria e la cui indeterminatezza
di compiti lasciava troppo spazio all'inventiva di comandanti
che ricoprivano gradi ai quali erano del tutto impreparati.
Tornando quindi al loro "comandante generale", Alessandro
Pavolini, era già fuori dalla realtà, nè
gli interessava più di tanto la vittoria militare,
sulla quale non soffermava la sua riflessione. Era ormai all'esito
della sua avventura, prigioniero di un sogno che gli faceva
scrivere "Le Brigate nere allineano - dai vecchi ai ragazzi
- gli uomini di ogni età. O meglio gli uomini che non
hanno età, se non quella del proprio spirito";
"Le Brigate nere anelano al combattimento contro il nemico
esterno, ma sanno che in una guerra come l'attuale, guerra
di religione, non c'è differenza fra nemico di fuori
e di dentro..."; "Le Brigate nere sono una famiglia,
questa famiglia ha un antenato lo Squadrismo, un blasone il
sacrificio di sangue, una genitrice l'Idea fascista, una guida,
un esempio, una dedizione assoluta e un affetto supremo Mussolini."
(Queste parole venivano scritte alla fine del 44, quando ormai
gli alleati erano vicini al Po). Sulla base di questi presupposti
era indifferente che le Brigate Nere avessero o no un'efficienza
militare. Come ogni verità fanatica, si giustificavano
da se stesse. Erano in fondo l'esito logico della Guerra come
fatto estetico e purificatore. E Pavolini seppe essere coerente
fino in fondo. Non si preoccupò di se stesso organizzò
la fuga in Svizzera della sua amante, e poi andò incontro
al suo destino. Vaneggiò di raccogliere ventimila fedelissimi
per costituire l'ultima resistenza in Valtellina là
voleva far trasportare anche le ossa di Dante, simbolo dell'italianità.
Pavolini di fedelissimi ne trovò solo duecento (il
più illustre dei quali, il generale Graziani, seppe
abbandonare la compagnia al momento buono, consegnandosi agli
alleati e salvando così la pelle) e si avviò
il 25 aprile del 45, per l'ultimo viaggio, dalla Prefettura
di Milano al lungolago di Dongo, il 26 aprile lascia Milano
a bordo dell'autoblinda della Brigata Nera di Lucca per raggiungere
la colonna di Mussolini che dal giorno precedente si trovava
a Como; a Musso si incontrano le colonne dei gerarchi che
hanno lasciato Milano e le città vicine cercando di
proseguire per Dongo e di raggiungere il Duce, ma nel centro
dell'abitato, formazioni di ribelli bloccano la colonna; l'autoblinda
di Pavolini, che trasporta anche Barracu e il prefetto Porta
cerca di invertire la marcia, cercando di scampare alla trappola,
fatta segno di numerosi colpi, si ferma l'autovettura fu abbandonata
precipitosamente dai due occupanti che si diedero alla fuga.
(Nelle ricerche eseguite subito dopo, fu catturato il primo
occupante il prefetto Porta) Pavolini esce, armi in pugno,gli
sparano, ferito si butta nel lago dove resiste fino a sera,
col mitra in mano, nascosto dietro a uno scoglio quando viene
scoperto e catturato solo verso sera, da una barca di ribelli
è quasi mezzo assiderato. Percosso selvaggiamente viene
condotto in municipio e il giorno dopo il 28, febbricitante,
zoppicando per le ferite, dopo lo sbrigativo processo sommario
assieme agli altri gerarchi, fu portato sul lungolago davanti
al parapetto, alle ore 17.48, fucilato. Fu uno dei primi a
cadere, e in base a una testimonianza sembra che sia caduto
gridando Viva l'Italia quando morì Pavolini aveva 42
anni. Il suo corpo, martoriato, verrà esposto a Piazzale
Loreto a Milano.
CARRIERA
MILITARE
- Tenente dell'Aereonautica nella Guerra 1935-1936 d'Africa
Orientale (1 medaglia d'argento al Valor Militare)
- Capitano dell'Aereonautica , promosso nel 1940
CARRIERA
POLITICA
- Iscrizione ai Fasci di Combattimento 1°ottobre 1920;
- Squadrista;
- Marcia su Roma;
- Vice Segretario Fascio di Firenze, 1928-1929;
- Segretario Federale della Federazione dei Fasci di Combattimento
di Firenze, dal 10 aprile 1929
al 20 maggio 1934;
- Membro della Direzione Nazionale del PNF, dal 12 dicembre
1932 al 23 dicembre 1933 e
dall'8 novembre 1940 al 6 febbraio 1943;
- Membro del Gran Consiglio del Fascismo, dal 31 ottobre 1939
al 6 febbraio 1943;
- Presidente Confederazione Fascista dei Professionisti e
degli Artisti, dal 29 ottobre 1934
al 23 novembre 1939;
- Consigliere Nazionale delle Corporazioni;
- Membro della Corporazione della Carta e della Stampa in
rappresentanza del PNF, dal 6 febbraio 1943;
- Deputato XXIX Legislatura, 1934-1939;
- Consigliere Nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni,
1939-1943;
- Ministro della Cultura Popolare, dal 31 ottobre 1939 al
6 febbraio 1943;
- Presidente della Cassa Nazionale assistiti della Confederazione
Fascista Professionisti e Artisti, 1938-1940;
- Fondatore e direttore del giornale "Il Bargello"
della Federazone dei Fasci di Firenze;
- Direttore de "Il Messaggero", dal febbraio al
luglio 1943;
- Presidente Istituto Nazionale relazioni culturali con l'estero;
- Segretario del Partito Fascista Repubblicano;
- Comandante delle Brigate Nere.