Subito
dopo i disordini di Fiume, si era istituito un "Comitato per
le rivendicazioni nazionali", che faceva capo a Giuriati il quale
godeva la fiducia di tutti i gruppi uItranazionalisti d'Italia. Egli
faceva da tramite tra i nazionalisti, i fascisti, gli arditi, gli
irredentisti fiumani, l'Associazione irredentista Trento-Trieste ed
i militari. Il Giuriati, forse conoscendo già la verità
sui fatti fiumani, previde sin dall'inizio quale sarebbe stato l'esito
delle indagini della Commissione d'inchiesta; sicchè sin dall'inizio
Giuriati, che si appoggiava all'industriale triestino Oscar Sinigaglia,
finanziatore generoso degli irredentisti e dei nazionalisti e per
ciò chiamato da Turati "l'impresario del "fiumanismo",
pensò di organizzare una "legione" per dare forza
all'annessione di Fiume all'Italia. Il Giuriati era riuscito, grazie
a finanziamenti raccolti da varie fonti, anche dal Popolo d'Italia,
a costituire la così detta "legione fiumana" posta
al comando di Host-Venturi, i cui compiti sovversivi furono chiari
sin dall'inizio a tutti. Nell'agosto si ebbe il rapporto della Commissione
interalleata d'inchiesta. A causa del veto posto alla libertà
di stampa da Nitti in Italia non si conobbero subito le soluzioni
del problema prospettate dalla Commissione; quel che è peggio
si conobbero relazioni distorte, che dettero un 'idea parziale ed
errata di quanto la Commissione aveva stabilito. Essa aveva infatti
suggerito una serie di provvedimenti che avrebbero reso impossibile
qualsivoglia colpo di mano. Infatti se era pensabile un colpo di mano
contro un generale italiano compiacente, ciò diventava impossibile
contro un comandante straniero, che di certo non si sarebbe posto
tanti problemi "patriottici" e che avrebbe senz'altro fermato
qualsivoglia tentativo insurrezionale. I cospiratori compresero allora
che era necessario agire, con la massima rapidità e senza ulteriori
esitazioni. Capo della congiura ancora non era stato designato D'Annunzio;
anche altri uomini avrebbero potuto aspirare al posto di condottiero
dei cospiratori: Sem Benelli, Host-Venturi avevano le carte in regola
per comandare loro la spedizione. Il nostro servizio informazioni
aveva avvertito il Governo ed il generale Badoglio dell'atmosfera
di complotto, che serpeggiava tra i reparti dell'esercito regolare,
sobillati dagli irredentisti, dai nazionalisti, dai fascisti e dagli
arditi. Nitti era contrario a qualsiasi avventura. La sua maggiore
preoccupazione era di mantenere l'ordine a Fiume, consentendo quindi
a Tittoni di condurre con serenità le trattative diplomatiche
in corso. Nitti quindi dette ordine a Badoglio di rafforzare il controllo
sulla zona; inoltre decise di nominare, al comando delle truppe italiane
di Fiume, il generale Pittaluga, uomo noto per la sua grande energia
e lealtà al Governo. Pensava Nitti in tal modo di avere scongiurato
qualsivoglia tentativo sedizioso, ma non si era reso conto dell'indisciplina
che ormai serpeggiava nell'esercito e che lo rendeva infido. I fiumani,
conosciuta la decisione della Commissione d'inchiesta di far ritirare
i granatieri di Sardegna, sostituendoli con la brigata Regina, mobilitarono
l'intera popolazione per una dimostrazione di massa e di saluto ai
soldati, che essendo stati i primi militari italiani a "liberare"
Fiume, erano il simbolo stesso della "liberazione di Fiume. Essi
"erano rimasti (nella città) per nove mesi e avevano finito
per 'fiumizzarsi', partecipando alla vita della città e divenendo
il simbolo della volontà italiana di strappare Fiume dal suo
stato di limbo." All'alba del 25 agosto, data fissata per la
partenza dei granatieri, i cittadini fiumani si riversarono per le
strade; era ancora buio, sicché dovettero farsi luce con le
torce. "Migliaia di fiumani, al suono delle fanfare e drappeggiati
con le bandiere italiane o in altre fogge patriottiche, avanzarono
per bloccare il passo ai granatieri in marcia" all'altezza dei
giardini pubblici. L'incontro con i soldati italiani fu un fatto d'incredibile
isterismo collettivo. "I fiumani gettavano fiori sulle truppe
e gridavano: "fratelli, non ci abbandonate! non lasciateci nelle
mani dei croati! ", e i soldati rispondevano urlando: "viva
Fiume italiana!". I fiumani bloccarono la strada distendendovi
le bandiere e i vessilli, e le truppe si arrestarono per un momento.
A questo punto le donne si gettarono in ginocchio davanti ai soldati,
implorandoli di rimanere, mentre i bimbi correvano ad aggrapparsi
alle mani e alle gambe degli ufficiali. Poichè la scena minacciava
di degenerare nel caos più completo, il generale dei granatieri
Anfossi si portò alla testa della colonna, accolto da grida
perché desse ai soldati l'ordine di rimanere a Fiume. Ma...
il generale non perse la testa e i liberatori ripresero la loro marcia
verso il nord, lungo la costa." Ma l'isterismo collettivo non
terminò qui; poco dopo, l'arrivo dei soldati della brigata
Regina, permise ai fiumani di dimostrare la loro passione italiana
ed i "nuovi soldati furono immediatamente sommersi da baci, applausi,
evviva, canti patriottici e inni, e da un vero profluvio di fiori".
Senz'altro Fiume era una città particolare; la vita cittadina
aveva talmente risentito dell'irredentismo esasperato da rimanerne
interamente permeata. Il 28 agosto il generale Pittaluga, su ordine
del comando di Udine, assunse il comando delle truppe italiane a Fiume;
quattro giorni dopo, partito da Fiume il generale Grazioli, il Pittaluga
divenne comandante anche del corpo interalleato di stanza a Fiume.
Nitti, ben certo dell'energia del nuovo comandante e della sua fedeltà
al governo, pensava a questo punto di essersi 'premunito da eventuali
colpi di mano. Ma evidentemente sbagliava; egli non aveva tenuto in
debito conto i sentimenti irredentistici che animavano buona parte
dell'esercito, ed in particolare i reparti che erano rimasti per tanto
tempo di stanza a Fiume. Risulta a questo punto incomprensibile perché
si sia deciso di trasferire i granatieri di Sardegna a Ronchi; conoscendo
l'esaltazione fiumana di questi uomini, informati dello spirito di
ribellione che serpeggiava tra di essi, sarebbe stata buona norma
e previdente decisione tràsferirli ben lontani dalla "zona
calda" e ciò proprio al fine di evitare eventuali colpi
di mano. Eppure nessuno pensò che la relativa vicinanza a Fiume
avrebbe potuto essere pericolosa, e si ritenne che tutto sommato avrebbe
prevalso la disciplina e pian piano si sarebbero chetate le "teste
calde". "Il primo Battaglione di granatieri, in attesa di
rientrare a Roma sede della brigata in tempo di pace, venne provvisoriamente
acquartierato a Ronchi, grossa borgata della provincia di Trieste,
(oggi fa parte della provincia di Gorizia) a quattro chilometri da
Monfalcone. La località era già storicamente nota perchè
il 16 settembre 1882 vi fu arrestato Guglielmo Oberdan e, singolare
coincidenza, proprio in un'aula dell'edificio scolastico di Ronchi
(trasformato in ospedale durante la guerra) era stato ricoverato dal
febbraio all'aprile 1917... il bersagliere Benito Mussolini".
Giunti quindi nella loro nuova sede, alcuni ufficiali subalterni,
(sette per l'esattezza) imbevuti di letture dannunziane, cosa allora
molto comune tra i giovani intellettuali italiani, redassero ed inviarono
un appello al poeta, che si trovava allora a Venezia, dove stava seriamente
occupandosi della possibilità di effettuare una grande trasvolata
verso l'oriente. "E voi non fate nulla per Fiume? Voi che avete
nelle Vostre mani l'Italia intera, la grande, nobile, generosa Italia,
non la scuoterete da quel letargo nel quale da qualche tempo è
caduta?" Così diceva l'appello dei giovani ufficiali,
i quali inviarono quindi uno di loro, il sottotenente Grandjaquet,
sino a Venezia con lo scopo di spingere D'Annunzio alla grande impresa.
Il Poeta viveva dicevamo a Venezia presso la così detta "Casetta
rossa" e lì riceveva continue visite dei più diversi
e svariati personaggi. Ancora oggi non è certo chi sia riuscito
a convincere D'Annunzio a mettersi alla testa dei granatieri di Ronchi.
Probabilmente egli subì l'influenza di diversi personaggi:
del generale Grazioli, di Host-Venturi, di Carlo Reina, di Claudio
Grandjaquet e di altri ancora. Fatto sta che il giorno undici D'Annunzio
lasciò Venezia per Ronchi, dove si recò per assumere
il comando della spedizione. "Il colpo di mano ebbe inizio con
un piccolo gruppo di uomini, centottantasei granatieri, più
tutti quelli che si sarebbero uniti ad essi alle porte di Fiume (secondo
le previsioni numerosi Arditi e la legione di Host-Venturi)... La
maggior parte delle forze comandate da D'Annunzio quando entrò
in città la mattina del dodici settembre o si era unita alla
colonna in marcia verso Fiume o era avanzata di propria iniziativa
sulla città, dove si incontrò con D'Annunzio. E ciò
avvenne malgrado le severe istruzioni. impartite dal governo a tutti
gli ufficiali comandanti la zona di bloccare ogni tentativo di conquista
della città. Eppure, durante la lunga notte e al primo mattino,
non un solo colpo fu sparato nel tentativo di arrestare D'Annunzio
o di fermarne l'avanzata. Solo fuori dalle porte della città
furono rivolte al poeta poche, sterili parole (da parte del generale
Pittaluga) per richiamare la sua attenzione su un fatto di cui del
resto egli si rendeva perfettamente conto: la marcia costituiva un
atto di sedizione". Si unirono ai granatieri partiti da Ronchi
gli Arditi del generale Zoppi. Il colonnello Repetto, malgrado l'ordine
impartìtogli di persona dal generale Pittaluga, di far fuoco
su D'Annunzio per fermarlo, rese gli onori al suo comandante ma si
rifiutò d'obbedire. Così le truppe al comando del poeta-soldato,
subito ribattezzato da tutti "il comandante," entrarono
tra il tripudio della folla fiumana nella città. "D'Annunzio
prese possesso della città in nome dell'Italia, e l'annessione
all'Italia fu annunciata ancora una volta dal balcone del Palazzo
del governo, da cui D'Annunzio arringò la folla. Vennero abbassate,
con l'onore delle armi, le bandiere alleate, rimanendo a sventolare,
solo, il tricolore. Le truppe alleate non fecero resistenza e più
tardi pacificamente sgomberarono." Frattanto nei giorni seguenti
affluirono di continuo e di propria iniziativa altri gruppi di militari
di varie armi e specialità; di terra, di mare e d'aviazione.
Si associarono alla sedizione anche le due navi da guerra Dante Alighieri
ed Emanuele Filiberto; in esse infatti i marinai rifiutarono di salpare
ed osarono anche arrestare l'ammiraglio Casanuova, che si era recato
sulla Dante Alighieri per convincere i marinai ad essere obbedienti
e quindi a partire. Il 13 settembre Nitti si presentò al Parlamento
per riferire sui gravi casi di Fiume. Egli senza mezzi termini condannò
l'impresa dannunziana, definendola la "follia di un vanesio";
constatò che il modo di agire dei militari aveva solo un nome:
diserzione; promise che contro coloro che non fossero subito tornati
al loro posto, obbedendo alle competenti autorità militari,
si sarebbe proceduto giudiziariamente per il reato appunto di diserzione.
In tutta Italia nazionalisti, fascisti ed arditi dimostrarono a favore
di Fiume e di D'Annunzio, contro il governo Nitti. A Fiume D'Annunzio
affibbiò al presidente del Consiglio il nomignolo dispregiativo
di Cagoia (Cagoia era un crapulone triestino, del basso popolo, espressione
della vigliaccheria). Mussolini per non essere da meno, inveì
contro il governo e particolarmente contro Nitti. Inoltre egli si
recò a Fiume a farsi notare accanto al "Comandante"
ed inviò in loco anche altri suoi fedeli collaboratori, quali
Marinetti e Vecchi. Ma ciò che maggiormente interessa ricordare
in questa sede è come l'impresa fiumana avesse in sé
già tutto il successivo rituale fascista, rivolto alla manipolazione
delle masse; il fascismo lo farà proprio, trasformandolo in
strumento di potere. Fu D'Annunzio a dimostrare la possibilità,
grazie alla connivenza dell'esercito, di marciare senza colpo ferire
su Fiume: Mussolini trasformerà questa marcia fiumana in marcia
su Roma; fu sempre D'Annunzio ad iniziare il rituale dei discorsi
dal balconecon saluto romano ed il grido di "eia, eia, alalà":
Mussolini trasferì questi metodi giore di peso nella nuova
gestione del potere e nella manipolazione delle masse; fu sempre D'Annunzio
ad evocare i martiri coi simboli e rituali quasi religiosi; per D'Annunzio
era la bandiera del Randaccio, per i fascisti sarà l'evocazione
mistico-religiosa dei loro "martiri". Ed anche il dialogo
con la folla, già iniziato da Orlando, fu perfezionato sino
a diventare coro drammatico, quasi rappresentazione da tragedia greca,
con conseguenti emozioni e forme di isterismo collettivi. Infine fu
sempre D'Annunzio ad inaugurare la prassi dei plebisciti (probabilmente
addomesticati), prassi ripresa dal fascismo e poi dal nazismo. In
sostanza l'impresa fiumana fece scuola, ed insegnò, a chi volle
imparare, come potesse essere semplice impadronirsi del potere, abbattendo
uno stato debole e smidollato, senza alcuna capacità di reagire
adeguatamente alla minaccia portata alla sua Costituzione. Ovviamente
la prima reazione da parte degli Alleati fu quella di ritenere che
il governo di Roma fosse d'accordo con D'Annunzio, e che di conseguenza
la marcia su Fiume fosse stata tutta una messa in scena. Tuttavia
man mano che giunsero precise informazioni da parte degli organi diplomatici
accreditati in Italia, tutti si resero conto che, per quanto potesse
sembrare poco credibile, il governo italiano era del tutto estraneo
al pronunciamento dannunziano. Si pose allora la preoccupazione che
la sedizione potesse estendersi al rimanente territorio italiano,
portando l'Italia verso soluzioni di tipo bolscevico. Sicchè,
vista la buona fede del governo, si decise di lasciare che fosse lo
stesso governo italiano a cercare una soluzione diplomatica o di forza
alla crisi, fermo restando il principio che gli alleati non intendevano
affatto accettare il fatto compiuto dell'annessione di Fiume all'Italia.
La ferma decisione di Wilson di non cedere nulla più di quanto
non fosse già stato assegnato all'Italia, non consentì
comunque di risolvere subito la crisi relativa alla questione fiumana.
Invece si potè senza problemi giungere alla firma del trattato
di pace tra Italia ed Austria. A Saint-Germain il 10 settembre del
1919 Austria e Italia firmarono la pace definitiva. In base al trattato,
all'Italia venne assegnato il Trentino, l'Alto Adige, la Valle di
Sesto e la conca di Tarvisio. Per tali cessioni Wilson, che restava
il più fiero oppositore alle rivendicazioni italiane, aveva
già, sin dal precedente maggio, data la sua approvazione.
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D'Annunzio a
Fiume
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