Discorso
pronunciato in Roma il 4 novembre 1925 nel VII anniversario della
Vittoria.
Sono 10 anni che noi viviamo il grande dramma della nazione che
prende coscienza di se stessa. Questo dramma comincia nel 1915,
comincia con la neutralità; quando la guerra percorse come
una folgore improvvisa gli orizzonti del mondo. Tutti allora i
cittadini furono d'accordo nella neutralità, ma i più
intelligenti e i più animosi compresero che la neutralità
non poteva essere fine a se stessa e ci furono degli anticipatori
allo scoppio della guerra, come quei volontari che andarono a
morire in Serbia o come quelli che andarono a insanguinare le
Argonne. Poi a mano a mano che i mesi passavano, il travaglio
è diventato più profondo: bisognava scegliere e
decidersi. Quali le ragioni, quali gli elementi che spingevano
all'intervento dell'Italia nella guerra mondiale? Vi era una corrente
che sosteneva la guerra in nome degli ideali di libertà
e di una idea umanitaria e di giustizia; un'altra per la conquista
dei confini della Patria, e infine una terza corrente che voleva
la guerra non per obbiettivi lontani e nemmeno per obbiettivi
territoriali, ma semplicemente per togliere la Nazione da uno
stato di inferiorità morale. Certamente voi ricordate quei
mesi che si conclusero nel maggio radioso quando Genova fu scossa
dalla voce formidabile del Poeta e Milano e Roma erano dominate
dall'estremismo popolare che travolse le ultime barriere. Fu allora
che per la prima volta il popolo si impose al Parlamento; fu allora
che per la prima volta 300 deputati furono travolti dal popolo
che voleva essere arbitro dei suoi destini. Non si può
spiegare l'intervento della moltitudine italiana senza ricordare
l'opera di Gabriele d'Annunzio, il quale, quando molti esitavano
ancora, scosse nel maggio il popolo italiano in maniera decisiva
e indistruttibile. E fummo alla guerra. Il popolo andò
alla guerra con entusiasmo. Vi furono duecentomila volontari:
questo dimostra che la guerra era popolare, ma anche la massa
mobilitata si recò alla frontiera con alto senso del proprio
dovere; ma, o signori, la guerra non è un affare di ordinaria
amministrazione, come la sostituzione di un Commissario Regio
o la destituzione di un Prefetto. La guerra che mette in giuoco
l'esistenza, l'avvenire, il destino di tutto un popolo è
l'atto più solenne che questo popolo compie nella sua storia;
e allora è necessario di educare gli uomini alla grandezza
degli eventi. Io non discuto, non metto minimamente in dubbio
il patriottismo di coloro che in regime demo-liberale condussero
la guerra. Il patriottismo è fuori questione. Ma il demo-liberalismo
ci diede una pagina assai triste: non dobbiamo dimenticarlo. Quando
la vita della Nazione è in giuoco, non esistono più
diritti di singoli: esistono i diritti dei popolo che deve essere
salvato ad ogni costo. E io affermo che se una più rigida
disciplina fosse stata imposta alla Nazione senza differenza di
fronti e di retrofronti, molto probabilmente non avremmo avuto
un episodio triste che ancora ci turba. E soprattutto, commilitoni,
non bisognava coltivare il cretinissimo principio che consiste
nell'accettare il male con la semplice speranza che ne venga un
bene, Era meglio arrivare a Vittorio Veneto senza le giornate
dell'ottobre 1917. Basta con l'idolo e basta con l'idolatria stupida
dello stellone; la storia deve insegnarci qualche cosa. D'altra
parte dopo quelle giornate il popolo ritrovò se stesso.
Ci fu la disciplina che i grandi capi avevano invano richiesta
dal fronte. E il popolo italiano mandò i suoi giovanetti
sul Piave; i mutilati, pure nello strazio delle antiche ferite,
ritornarono al fronte per incuorare coloro che stavano in trincea.
L'Italia fu magnifica, fu superba, piena di entusiasmo, di fede,
di passione. Avemmo la vittoria trionfale nel giugno e la vittoria
non meno trionfale di Vittorio Veneto. Chi di voi non ricorda
quei giorni inobliabili? Però il popolo era nelle strade
a festeggiare la pace, non ancora la vittoria. Umano, profondamente
umano. Ma la vittoria non appariva ancora agli spiriti con tutta
la sua potenza creatrice e nemmeno per tutto il 1919, a pace ultimata,
ci fu senso della vittoria, e nemmeno nel '20, quando una nobile
città dell'Alta Italia, straziata dalle bombe nemiche,
rifiutò la croce di guerra. Fu nel 1921, quando un manipolo
di deputati fascisti alla Camera dei deputati scacciò un
disertore, che si cominciò a capire che c'era qualche cosa
di nuovo in Italia. Il fante era tornato dalle trincee, anzi era
stato disperso dalle trincee. Quale era il tuo bottino, o fante
scalcinato, o fante tricolore, per il rosso delle trincee carsiche,
per il bianco dei ghiacciai alpini e per il verde della bile che
ti avevano fatto mangiare gli imboscati durante la guerra? Eccolo
il tuo bottino: il pacco vestiario. Ci fossero state almeno delle
soddisfazioni morali! Bisognava portare almeno i nostri battaglioni
superstiti a sfilare nelle capitali nemiche; ma voi sapete come
all'ultimo minuto mutò la scena. Tu non dovevi avere nemmeno
quella soddisfazione. Si disse al fante: tu dovrai nascondere
i segni delle tue ferite; tu non dovrai portare i simboli del
valore sul tuo petto; tu dovrai diventare numero della moltitudine
e dimenticarti di aver fatto la guerra perché è
l'ora dell'espiazione. È questa la parola funebre, catastrofica
venuta dall'abisso dell'abiezione, che dominò lo spirito
del popolo in quel tempo. Si voleva che si espiasse il delitto
della guerra: e si voleva un'inchiesta sulla guerra, come se la
guerra fosse una operazione amministrativa qualunque e si volevano
colpire i grandi generali, verso i quali deve andare la gratitudine
del popolo anche se hanno sbagliato, perché dobbiamo tener
conto delle enormi difficoltà che essi hanno in certe ore
guidando un esercito. Intanto i diplomatici si sedevano attorno
a un tavolo verde. Erano eloquenti o non erano eloquenti, pensavano
al popolo italiano o vi pensavano pochissimo; ma la vittoria era
ancora quasi sconosciuta al popolo. Non la sentiva. Fu solo più
tardi nel 1922 che il popolo si rese finalmente conto del miracolo
che egli aveva compiuto. Miracolo! Prodigio, prodigio umano. Pensate,
o commilitoni, alla storia italiana di questo scorcio di secolo
e vi troverete quasi certamente il segno di Dio. Pensate al periodo
che va dal '20 al '48, periodo delle cospirazioni, degli esili;
pensate alla guerra temeraria del piccolo Piemonte del '48 e '49.
E una delle cause della rotta di Novara fu, lo hanno riconosciuto
gli storici, la eccessiva libertà di stampa. E pensate
che ad ogni tentativo di rompere in guerra vi era il dissidio
fra i municipalisti retrivi e i democratici conservatori, quando
la guerra di Crimea era l'atto più geniale che sia stato
compiuto dalla diplomazia in tutti i tempi. Cavour decideva di
mandare 15.000 uomini in Crimea, Mazzini si dichiarava contrario
a questa impresa, mentre Garibaldi l'appoggiava. Persino v'era
chi non voleva votare i bilanci militari. Ed aveva ragione Carlo
Alberto il magnanimo quando, andando ad Oporto, diceva agli italiani:
siate un po' più uniti e diventerete invincibili. Malgrado
ciò, per il sacrificio, per la volontà crescente,
per l'impulso dato dal Piemonte, per tutti i martirii sopportati
da tutti i patrioti di tutte le regioni d'Italia, il gran passo
era compiuto nel 1870. Poi, nel 1915, non la sola fatalità
storica, ma anche la volontà umana spinge a brandire la
spada. Abbiamo conquistato i confini veramente sacri e inviolabili,
i confini del Brennero e del Nevoso; guai a chi li tocca. Tutto
il popolo in questo caso urgerebbe alle frontiere nel desiderio
della guerra e della battaglia. Perché io affermo che con
oggi il popolo ha il senso della vittoria? Prego di seguirmi in
questa formulazione del mio pensiero che cercherò di rendere
il più esatta possibile. Il regime precedente al nostro,
il regime demo-liberale, ignorò le masse. In un secondo
tempo non le ignorò più, ma le abbandonò
agli altri che le innalzarono contro lo Stato. Oggi, quando vedete
i reduci marciare a tre e a quattro, quando vedete questa magnifica
disciplina del popolo italiano che marcia nelle strade non più
a forma di gregge come una volta, ma a battaglioni serrati, voi
vi rendete conto che una profonda trasformazione si è operata
nell'animo del popolo italiano; vi rendete conto che il popolo
italiano è entrato nello Stato. È un atto di vittoria.
Chi poteva dopo la guerra, e lavorando sul materiale della guerra,
sulle passioni, i trionfi ed anche sulle delusioni della guerra,
chi poteva avvicinare questo popolo ostile o indifferente o dimenticato
allo Stato? Chi? Il Fascismo. Non il liberalismo. Non il socialismo.
Le masse oggi riconciliate con la Nazione entrano per la grande
porta spalancata dalla Rivoluzione fascista nello Stato, e lo
Stato con la Monarchia in alto allarga smisuratamente le sue basi
e non ci sono più soltanto dei sudditi, ci sono cittadini;
non c'è soltanto una popolazione, ma c'è un popolo
cosciente. Questo è il problema, questa è la verità
della storia diventata pane dello spirito consapevole degli italiani.
O commilitoni, la vittoria non è punto di arrivo! È
un punto di partenza. Non è una meta, è una tappa.
La vittoria non è una comoda poltrona, nella quale ci si
adagia durante le solenni commemorazioni. No, è un aculeo,
è uno sprone, che ci spinge alle vette faticose; la vittoria
non deve essere il pretesto per una commemorazione annuale per
avere poi l'indulgenza di dormirci su gli altri 364 giorni! Io
reagisco nettissimamente contro questa concezione passiva, statica,
inerte della vittoria. La vittoria è un patrimonio ricchissimo,
sul quale è rigorosamente proibito di vivere di rendita.
Bisogna ogni giorno rinnovarlo, ogni giorno fortificarlo, ogni
giorno renderlo più efficiente, più armato, più
lucente, in modo che domani, se il destino voglia, la vittoria
sia la pedana dalla quale si balza all'avvenire. Questo senso
augusto e solenne della vittoria deve essere presente. Perché
la pace è certamente un desiderio umano, di tutti gli individui
e di tutti i popoli, specie dopo una lunga guerra. Or bene, io
vi dichiaro recisamente che, mentre credo e spero in un periodo
di pace abbastanza lungo, non sono ancora arrivato a un grado
così eccelso di ottimismo da credere alla pace duratura
per i secoli. Io partecipo, l'Italia partecipa, il Governo italiano
naturalmente, a tutti i tentativi che si fanno per stabilizzare
la pace, ma all'indomani del più grande avvenimento pacifista
di questi ultimi tempi, il cannone ha tuonato ancora in Macedonia,
tuona ancora sui bordi orientali del Mediterraneo e, proprio all'indomani,
60 mila combattenti in una grande città di oltre frontiera
sfilavano in parata sognando una rivincita. Guardiamo con un occhio
alla colomba della pace che pura si leva negli orizzonti lontani,
ma con l'altro occhio guardiamo alle necessità concrete
della vita, alla storia che non può essere contenuta in
nessun trattato, alla storia che ci mostra il sorgere, il crescere,
il declinare degli individui e dei popoli, alla storia che crea
i grandi squilibri fatali. Speriamo che la storia di domani abbia
un corso diverso da quello di ieri, ma nell'attesa di questo miracolo
noi dobbiamo agguerrirci, noi dobbiamo avere un esercito potente,
una marina valida, una aviazione che domini i cieli, e soprattutto
uno spirito in tutte le classi del popolo disposto al sacrificio.
Nel 1826, dopo la spedizione infelice della Savoia, Giuseppe Mazzini
si domandava: "E se questa Patria non fosse che una illusione
? E se l'Italia, esaurita da due epoche di civiltà, fosse
oggi condannata a giacere senza nome e senza missione, aggiogata
a nazioni più giovani e rigogliose di vita?". Quando
Mazzini dettava queste parole, il suo animo era sconvolto da quella
che si può chiamare "la tempesta del dubbio".
Oggi, dopo un secolo, è ineffabile per noi, italiani di
questa generazione, poter sciogliere questo dubbio angoscioso
e dare, attraverso Vittorio Veneto, la risposta trionfale a questo
interrogativo. No! La Patria non è una illusione, la Patria
è la più grande, la più umana, la più
pura delle realtà! No! L'Italia non si è esaurita
nella prima e nella seconda civiltà e ne sta creando una
terza! Nel nome del Re e nel nome dell'Italia, col braccio, con
lo spirito, col sangue, con la vita, commilitoni, la creeremo.
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