Discorso
che venne pronunciato il 16 novembre 1922 alla Camera,
primo giorno di Mussolini come Capo del Governo
Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un
atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo
nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti, anzi da troppi
anni, le crisi di Governo erano poste e risolte dalla Camera attraverso
più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi
veniva regolarmente qualificata come un assalto, ed il Ministero
rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è
accaduto per la seconda volta, nel volgere di un decennio, che
il popolo italiano - nella sua parte migliore - ha scavalcato
un Ministero e si è dato un Governo al di fuori, al disopra
e contro ogni designazione del Parlamento. Il decennio di cui
vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio
ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito
di dissertare più o meno lamentosamente su ciò.
Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché
ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al
massimo grado la rivoluzione delle "camicie nere", inserendola
intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio
nella storia della Nazione. Mi sono rifiutato di stravincere,
e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto
che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona
dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto,
decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io
potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di
infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia
un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire
un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno
in questo primo tempo, voluto. Gli avversari sono rimasti nei
loro rifugi: ne sono tranquillamente usciti, ed hanno ottenuto
la libera circolazione: del che approfittano già per risputare
veleno e tendere agguati come a Carate, a Bergamo, a Udine, a
Muggia. Ho costituito un Governo di coalizione e non già
coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale
posso oggi fare benissimo a meno, ma per raccogliere in aiuto
della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature
dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare. Ringrazio dal
profondo del cuore i miei collaboratori, ministri e sottosegretari:
ringrazio i miei colleghi di Governo, che hanno voluto assumere
con me le pesanti responsabilità di questa ora: e non posso
non ricordare con simpatia l'atteggiamento delle masse lavoratrici
italiane che hanno confortato il moto fascista colla loro attiva
o passiva solidarietà. Credo anche di interpretare il pensiero
di tutta questa Assemblea e certamente della maggioranza del popolo
italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si
è rifiutato ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima
ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle
stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente
fascista uscita dalla guerra ed esaltata dalla vittoria. Prima
di giungere a questo posto, da ogni parte ci chiedevano un programma.
Non sono ahimè i programmi che difettano in Italia: sibbene
gli nomini e la volontà di applicare i programmi. Tutti
i problemi della vita italiana, tutti dico, sono già stati
risolti sulla carta: ma è mancata la volontà di
tradurli nei fatti. Il Governo rappresenta, oggi, questa ferma
e decisa volontà. La politica estera è quella che,
specie in questo momento, più particolarmente ci occupa
e preoccupa. Ne parlo subito, perché credo, con quello
che dirò, di dissipare molte apprensioni. Non tratterò
tutti gli argomenti, perché, anche in questo campo, preferisco
l'azione alle parole. Gli orientamenti fondamentali della nostra
politica estera sono i seguenti: i trattati di pace, buoni o cattivi
che siano, una volta che sono stati firmati e ratificati, vanno
eseguiti. Per ciò che riguarda precisamente l'Italia noi
intendiamo di seguire una politica di dignità e di utilità
nazionale. Non possiamo permetterci il lusso di una politica di
altruismo insensato o di dedizione completa ai disegni altrui.
Do ut des. L'Italia di oggi conta, e deve adeguatamente contare.
Lo si incomincia a riconoscere anche oltre i confini. Non abbiamo
il cattivo gusto di esagerare la nostra potenza, ma non vogliamo
nemmeno, per eccessiva ed inutile modestia, diminuirla. La mia
formula è semplice: niente per niente. Chi vuole avere
da noi prove concrete di amicizia, tali prove di concreta amicizia
ci dia. L'Italia fascista, come non intende stracciare i trattati,
così per molte ragioni di ordine politico, economico e
morale non intende abbandonare gli Alleati di guerra. Roma sta
in linea con Parigi e Londra, ma l'Italia deve imporsi e deve
porre agli Alleati quel coraggioso e severo esame di coscienza
che essi non hanno affrontato dall'armistizio ad oggi. Si tratta
insomma di uscire dal semplice terreno dell'espediente diplomatico,
che si rinnova e si ripete ad ogni conferenza, per entrare in
quello dei fatti storici, sul terreno cioè in cui è
possibile determinare in un senso o nell'altro un corso degli
avvenimenti. Una politica estera come la nostra, una politica
di utilità nazionale, una politica di rispetto ai trattati,
una politica di equa chiarificazione della posizione dell'Italia
nell'Intesa, non può essere gabellata come una politica
avventurosa o imperialista nel senso volgare della parola. Noi
vogliamo seguire una politica di pace: non però una politica
di suicidio. Le direttive di politica interna si riassumono in
queste parole economia, lavoro, disciplina. Il problema finanziario
è fondamentale: bisogna arrivare colla maggiore celerità
possibile al pareggio del bilancio statale. Regime della lesina:
utilizzazione intelligente delle spese: aiuto a tutte le forze
produttive della Nazione. Chi dice lavoro, dice borghesia produttiva
e classi lavoratrici delle città e dei campi. Non privilegi
alla prima, non privilegi alle ultime, ma tutela di tutti gli
interessi che si armonizzino con quelli della produzione e della
Nazione. Il proletariato che lavora, e della cui sorte ci preoccupiamo,
ma senza colpevoli demagogiche indulgenze non ha nulla da temere
e nulla da perdere, ma certamente tutto da guadagnare da una politica
finanziaria che salvi il bilancio dello Stato ed eviti quella
bancarotta che si farebbe sentire in disastroso modo specialmente
sulle classi più umili della popolazione. La nostra politica
emigratoria deve svincolarsi da un eccessivo paternalismo, ma
il cittadino italiano che emigra sappia che sarà saldamente
tutelato dai rappresentanti della Nazione all'estero. L'aumento
del prestigio di una Nazione nel mondo è proporzionato
alla disciplina di cui dà prova all'interno. Non vi è
dubbio che la situazione all'interno è migliorata, ma non
ancora come vorrei. Non intendo cullarmi nei facili ottimismi.
Non amo Pangloss. Le grandi città ed in genere tutte le
città sono tranquille: gli episodi di violenza sono sporadici
e periferici, ma dovranno finire. I cittadini, a qualunque partito
siano iscritti, potranno circolare: tutte le fedi religiose saranno
rispettate, con particolare riguardo a quella dominante che è
il Cattolicismo: le libertà statutarie non saranno vulnerate:
la legge sarà fatta rispettare a qualunque costo. Lo Stato
è forte e dimostrerà la sua forza contro tutti,
anche contro l'eventuale illegalismo fascista, poiché sarebbe
un illegalismo incosciente ed impuro che non avrebbe più
alcuna giustificazione. Debbo però aggiungere che la quasi
totalità dei fascisti ha aderito perfettamente al nuovo
ordine di cose. Lo Stato non intende abdicare davanti a chicchessia.
Chiunque si erga contro lo Stato sarà punito. Questo esplicito
richiamo va a tutti i cittadini, ed io so che deve suonare particolarmente
gradito alle orecchie dei fascisti, i quali hanno lottato e vinto
per avere uno Stato che si imponga a tutti, colla necessaria inesorabile
energia. Non bisogna dimenticare che, al di fuori delle minoranze
che fanno della politica militante, ci sono quaranta milioni di
ottimi italiani i quali lavorano, si riproducono, perpetuano gli
strati profondi della razza, chiedono ed hanno il diritto di non
essere gettati nel disordine cronico, preludio sicuro della generale
rovina. Poichè i sermoni - evidentemente - non bastano,
lo Stato provvederà a selezionare e a perfezionate le forze
armate che lo presidiano: lo Stato fascista costituirà
una polizia unica, perfettamente attrezzata, di grande mobilità
e di elevato spirito morale; mentre Esercito e Marina gloriosissimi
e cari ad ogni italiano - sottratti alle mutazioni della politica
parlamentare, riorganizzati e potenziati, rappresentano la riserva
suprema della Nazione all'interno ed all'estero. Signori, Da ulteriori
comunicazioni apprenderete il programma fascista, nei suoi dettagli
e per ogni singolo dicastero. Chiediamo i pieni poteri perché
vogliamo assumere le piene responsabilità. Senza i pieni
poteri voi sapete benissimo che non si farebbe una lira - dico
una lira - di economia. Con ciò non intendiamo escludere
la possibilità di volonterose collaborazioni che accetteremo
cordialmente, partano esse da deputati, da senatori o da singoli
cittadini competenti. Abbiamo ognuno di noi il senso religioso
del nostro difficile compito. Il paese ci conforta ed attende.
Vogliamo fare una politica estera di pace, ma nel contempo di
dignità e di fermezza: e la faremo. Ci siamo proposti di
dare una disciplina alla Nazione, e la daremo. Nessuno degli avversari
di ieri, di oggi, di domani si illuda sulla brevità del
nostro passaggio al potere. Illusione puerile e stolta come quella
di ieri. Il nostro Governo ha basi formidabili nella coscienza
della Nazione ed è sostenuto dalle migliori, dalle più
fresche generazioni italiane. Non v'è dubbio che in questi
ultimi giorni un passo gigantesco verso la unificazione degli
spiriti è stato compiuto. La patria italiana si è
ritrovata ancora una volta, dal nord al sud, dal continente alle
isole generose, che non saranno più dimenticate, dalle
metropoli alle colonie operose del Mediterraneo e dell'Adriatico.
Non gettate, o signori, altre chiacchiere vane alla Nazione. Cinquantadue
iscritti a parlare sulle mie comunicazioni, sono troppi. Lavoriamo
piuttosto con cuore puro e con mente alacre per assicurare la
prosperità e la grandezza della Patria. Così Iddio
mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.
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