DISCORSO DEL
19 maggio 1918

Discorso pronunciato a Bologna, al Teatro Comunale, il 19 maggio 1918, in occasione della consegna della nuova bandiera ai mutilati bolognesi (Da II Popolo d'Italia, N. 142, 24 maggio 1918, V)

Combattenti! Signore! Cittadini!
Voi mi permetterete di sorvolare, senza indugio soverchio, sulle polemiche che hanno preceduto la mia venuta in questa città. Se, come dice il poeta, il nostro grande poeta Giosué Carducci: " non si cercano le farfalle sotto l'arco di Tito ", non si cercano nemmeno sotto gli archi di questa nostra magnifica e vecchia Bologna, specialmente quando c'è il caso di non trovare farfalle, ma pipistrelli che sembrano spauriti e confusi davanti a questo trionfante sole di maggio. Non vi sorprenderà la forma del mio discorso. Spesso mi accade che prima di parlare al pubblico, io parli a me stesso. Tré anni fa, in questi giorni, tutta l'Italia cosciente e volitiva, l'unica Italia che ha diritto di far assurgere la sua cronaca da rottame caotico di episodi alla grandezza della storia, fiammeggiava di una grande passione, della nostra passione. Io noto che da qualche tempo vi sono degli opportunisti che cercano di aprire una piccola porticina per le eventuali responsabilità di domani e vanno elencando faticosamente le ragioni per cui l'Italia non poteva rimanere neutrale. Ebbene, io ammetto che ci sia stata una fatalità, ammetto questa costrizione che proveniva da un complesso di cause sulle quali è inutile insistere, ma io aggiungo che a un dato momento di questa concatenazione di fenomeni noi abbiamo inserito l'impronta della nostra volontà; e oggi, a tré anni di distanza, noi non siamo dei frati pentiti di quello che abbiamo fatto. Noi lasciamo questo basso atteggiamento spirituale a coloro che vanno in cerca di applausi, di collegi e di soddisfazioni personali; ma quando si disprezza, come disprezzo intimamente io, il parlamentarismo e la demagogia, si è ben lontani da tutto ciò. Quello che Machiavelli dice nel capitolo VI del Prìncipe a proposito di coloro che per propria virtù come Moisè, Ciro, Remolo, Teseo, giunsero al principato, può applicarsi non solo agli individui ma ai popoli. "Ed esaminando - dice il Segretario fiorentino - le azioni e la vita loro, non si vede che quelli avessero altro della fortuna che l'occasione, la quale dette loro materia da potere introdurvi dentro quella forma che parve loro; e senza quell'occasione la virtù dell'animo loro si sarebbe spenta, e senza quella virtù l'occasione sarebbe venuta invano... Queste occasioni pertanto fecero questi uomini/elici e l'eccellente virtù loro fece quella occasione essere compiuta; donde la loro patria ne fu nobilitata e diventò felicissima". Riferendoci al popolo italiano nel maggio radioso si può dire che, senza l'occasione della guerra, la virtù del nostro popolo si sarebbe spenta; ma senza questa virtù, l'occasione della guerra sarebbe passata invano. Ho ritrovato un'eco del pensiero di Machiavelli, nel libro di Maeterlinck, il grande poeta del Belgio, il poeta che, forse più di ogni altro, fra i contemporanei, ha dato un'espressione, una voce a tutti i movimenti più delicati e complessi dell'animo umano. Il Maeterlinck nel suo libro Saggezza e Destino ammette la fatalità meccanica "esterna, ma ammette anche che un individuo possa reagire contro questa fatalità. " L'avvenimento, in sé - dice Maeterlinck nel capitolo VII del suo: La Sagesse et la Destinée - è l'acqua pura che la fontana versa su di noi e non ha ordinariamente in se stesso ne sapore, ne colore, ne profumo. Diventa bello e triste, dolce e amaro; mortale o vivificatore a seconda delle qualità dell'animo che lo raccoglie. " Accadono continuamente a coloro che ci circondano mille e mille avventure che sembrano tutte gravide di germi d'eroismo e nulla d'eroico si eleva quando l'avventura è dissipata. Ma Cristo incontra sulla sua strada un gruppo di fanciulli, una donna adultera, o la Samaritana e l'umanità monta tré volte di seguito all'altezza di Dio". L'avvenimento della guerra mondiale è stato per il nostro popolo un getto d'acqua pura. E stato mortale, ad esempio, per la Spagna; vivificatore, per noi. Noi abbiamo voluto. Abbiamo scelto. Prima di arrivare alla scelta abbiamo polemizzato, abbiamo lottato e qualche volta la lotta ha assunto un aspetto di fiera violenza; abbiamo vinto noi, ed anche oggi siamo orgogliosi di quelle giornate e ci compiaciamo che il ricordo delle moltitudini che occupavano le strade e le piazze delle nostre città, turbi molto coloro che furono sconfitti e quelli che ancora oggi tentano coi mezzi più insidiosi di spegnere la sacra fiamma e la fede del nostro popolo. Questa guerra l'hanno accettata come si accetta una corvée pesante, e il loro duce, inseguito dalle maledizioni di tutto un popolo, si è ritirato come un vecchio feudatario, nel suo remoto paese; e non possiamo fargli che questo augurio: che ci rimanga per sempre. Ma, come non mi stancherò di ripetere, noi giovani commettemmo allora un errore, un errore che abbiamo duramente scontato: consegnammo questa nostra giovinezza ardente alla più desolante vecchiaia. Quando dico vecchi non stabilisco un rapporto soltanto cronologico. Io penso che si nasce vecchi: che c'è qualcuno a vent'anni, che è già cadente di spirito e di carne, mentre ci sono uomini a settantenni, come il meraviglioso Tigre di Francia, che hanno ancora tutta la vibrazione, la fiamma della virile giovinezza. Parlo dei vecchi che sono vecchi, che sono superati, che sono ingombranti. Essi non hanno compreso, non hanno realizzato nessuna delle verità fondamentali della guerra. Che cosa significa questa guerra, nella sua portata storica, nel suo sviluppo, è stato intuito, oltre che dal popolo, da due categorie di persone: dai poeti e dagli industriali. Dai poeti, i quali avendo un'anima squisitamente sensitiva afferrano prima della media comune le verità ancora crepuscolari; dagli industriali che capirono che questa guerra era una guerra di macchine. Tra i due mettiamoci anche i giornalisti, i quali sono sufficentemente poeti per non essere industriali e sono sufficentemente industriali per non essere poeti. E i giornalisti hanno parecchie volte preceduto il Governo. Io parlo dei grandi giornalisti che hanno i padiglioni auricolari sempre aperti e tesi alle vibrazioni del mondo esterno. Il giornalista talvolta ha preveduto quello che il vero responsabile purtroppo vedeva tardivamente. Questa guerra è stata fino ad oggi " quantitativa ". Ora si è visto che la massa non vince la massa: un esercito non vince un esercito; la quantità non vince la quantità. Bisogna affrontare il problema da un altro punto di vista, quello della qualità. Questa guerra, che è stata agli inizi enormemente democratica, tende a diventare aristocratica. I soldati diventano guerrieri. Si procede a una selezione fra le masse armate. La guerra portata quasi esclusivamente nei cicli è una guerra che ha perduto i caratteri che aveva nel 1914. Il romanziere che primo ha intuito i problemi della guerra " qualitativa " è stato Wells. Leggete il suo volume: La guerra su tré fronti. E in questo libro ch'egli consiglia di sfruttare le qualità della razza latina e anglo-sassone. Perché mentre i tedeschi agiscono soltanto se inquadrati, danno un alto rendimento soltanto attraverso l'esasperato automatismo della massa, i latini sentono la bellezza dell'audacia personale, il fascino del rischio, hanno il gusto* dell'avventura; gusto che in Germania, dice Wells, è limitato soltanto ai discendenti della nobiltà feudale, mentre da noi lo si trova diffuso anche tra il popolo. Un'altra verità che i responsabili hanno realizzato tardi è che per vincere gli eserciti, bisogna vincere i popoli. Prendere, cioè, al rovescio, gli eserciti. E difficile questo per la Germania etnicamente, politicamente e moralmente compatta. Ma noi abbiamo invece di fronte un nemico sul quale si poteva agire sin da principio, in questo senso: dovevamo insinuare la nostra azione nel mosaico dello Stato austriaco. Io sono molto felice di aver contribuito alla creazione di reggimenti boemi. Sono ancor più contento di sapere che si sono già formati parecchi di questi reggimenti e non mi stupisco di apprendere che si tratta di magnifici soldati che coll'esempio loro giovano anche al morale dei nostri. Fra i popoli che non si prendono alle spalle, è il nostro. Il mio elogio sincero. Grande è stato il popolo delle trincee e grande l'altro che non ha combattuto. Le deficienze devono ricercarsi altrove, fra il vecchiume di cui parlavo poco fa. Ho vissuto con questi valorosi nostri soldati nelle trincee, li ho ascoltati quando parlavano nei piccoli crocchi, li ho visti nelle ore della malinconia, nei momenti epici dell'entusiasmo. E quando dopo il triste 24 ottobre c'era un po' di diffidenza verso i combattenti io sono insorto perché mi pareva impossibile che dei soldati che avevano vinto le battaglie sul terreno più difficile di tutti i teatri della guerra fossero diventati di un colpo dei pusillanimi che si sbandano al semplice crepitio di una mitragliatrice. Non è così, perché se così fosse, non ci sarebbe stato fiume per fermare l'onda invadente e se ci siamo fermati sul Piave è segno che potevamo resistere anche sul Fisonzo. Leggevo ieri sera in treno un libro di poesie scritte in trincea da un capitano: Arturo Marpicati. E l'unica letteratura possibile: la letteratura di guerra, quando però si tratti di scrittori che ci sono realmente stati. In queste strofe io riconosco i miei commilitoni di una volta. Riconoscevo gli umili grandi soldati della nostra guerra. Ecco:

Col vecchio suo magico sguardo,
il dovere, nume d'acciaio
gl'inconsci anche soggioga.
Benché ne balbettino il nome,
ecco, essi, la madre difendono;
ed è madre di tutti;
e son essi la guerra,
e son essi la fronte,
son essi la vittoria;
dai loro elmetti ferrei
spicca il volo la gloria;
essi, martiri e santi,
sono l'eroica Patria,
essi, i fanti!

Ma l'elogio migliore del popolo in armi è consegnato nei mille bollettini del Comando Supremo. Anche l'altro popolo inerme merita di essere esaltato. Quello delle città nervose e irrequiete, fenomeno inevitabile dovuto alla " società " di migliaia di creature al contatto di migliaia di temperamenti e quello delle campagne. Dalla Valle Padana al Tavoliere delle Puglie; dalle colline pampinee del Monferrato ai pianori solatii della Conca d'Oro, le case dei contadini si sono vuotate. E colle case, le stalle. Le donne hanno visto partire il padre e il figlio; il meditativo territoriale più che quarantenne e l'avventuroso adolescente dell'anno secolare. Sangue, denaro, lavoro. Inutile chiedere all'umile gente proletaria un'alta coscienza nazionale che non può avere, semplicemente perché non abbiamo mai fatto nulla per dargliela. Al popolo che ha lasciato la vanga e impugnato il fucile, chiediamo semplicemente che obbedisca; ed il popolo italiano, il popolo della campagna e quello delle officine, obbedisce. Un episodio triste e qualche sintomo d'irrequietezza non bastano a guastare la linea del quadro. Ci avevano detto che non avremmo resistito sei mesi, che all'annuncio dei morti le famiglie sarebbero insorte, che i nostri mutilati, agli angoli delle strade, agitando i loro monconi, avrebbero sollevato l'animo popolare. Si compiono in questi giorni i tre anni. Tre lunghissimi anni. Le madri dei caduti hanno l'orgoglio sacro del loro dolore; i mutilati, non ci tengono all'appellativo di gloriosi, ma respingono soprattutto l'aggettivo di " poveri "... Le nostre privazioni alimentari sono foltissime, eppure la gente resiste. Le " tradotte " vanno al fronte, i vagoni infiorati come nel maggio del 1915. Le città e le campagne sono semplicemente meravigliose di dignità e di tranquillità. La crisi nazionale che va dall'agosto all'ottobre 1917 e si compendia in due nomi: Torino-Caporetto, è stata in un certo senso salutare. Era il riflesso della grande crisi che ha gettato nel baratro la Russia. C'è stata un'idea direttrice nella politica leninista che ha condotto la Russia alla pace " penosa, forzata, disonorante " di Brest? Sì, c'è stata. I massimalisti in buona fede hanno creduto alla possibilità della rivoluzione per " contagio ". Essi speravano di giungere ad " infettare " col virus massimalista la Germania. Non ci sono riusciti. La Germania è refrattaria. Gli stessi " minoritan " sono ben lungi dal proclamarsi bolscevichi. Di più. Questi minoritan che dovrebbero rappresentare, in ogni modo, il lievito fermentatore, perdono continuamente terreno. Tre elezioni, tre disfatte clamorose. I maggioritari trionfano. Essi sono oggi quali erano nell'agosto 1914, dei complici del pangermanismo: vogliono vincere. Dopo Brest-Litovsk i socialisti non hanno fiatato; dopo la pace di Bucarest i socialisti non hanno proferito un sol verbo. Si è visto a quale risultato è andata incontro la Russia con la predicazione lenini-sta; si è visto come i socialisti tedeschi, che accettavano: " Ne annessioni, ne indennità; diritto ai popoli di decidere delle loro sorti ", abbiano interpretato questa dot-trina. I tedeschi si sono presi 540 mila chilometri quadrati in Russia con 55 milioni di abitanti; poi sono passati in Romania e l'hanno completamente spogliata. Se la pace di Brest-Litovsk è stata una vergogna per la Russia, la pace di Bucarest non è disonorante; i romeni sono stati presi alla schiena e non hanno potuto resistere. Intanto Cicerin, commissario agli Esteri, fa lavorare il telegrafo senza fili. Un freddurista potrebbe osservare che se la Repubblica di Roma in un'ora critica della sua storia ha avuto un Cicerone, la Russia deve avere Cicerin, che, contrariamente al primo, nessuno prende sul serio, perché non si prendono sul serio coloro che non sanno, per la difesa dei propri diritti, impugnare le armi. L'esperimento russo ci ha enormemente giovato. E sotto l'aspetto socialistico e sotto quello politico. Ha aperto molti occhi che si ostinavano a rimanere chiusi. Se la Germania vince, bisogna mettersi in mente che la rovina certissima e totale ci attende. Il germano non ha modificati i suoi istinti fondamentali. Sono gli stessi, che Tacito descriveva nel suo Germania alla perfezione, con queste parole: "Vivevano i germani, non in villaggi, ma in case separate, divise da un largo spazio per meglio difenderle dal fuoco. Per ripararsi dal freddo usavano abitare ambienti sotterranei coperti di letame o si vestivano colle pelli del bestiame minuto che possedevano numeroso. Forti in guerra, ma anche bevitori e giocatori ostinati, armati di aste, ben forniti di cavalli, preferivano acquistare quanto loro occorreva colla violenza, anziché col lavoro delle loro terre ". Nella Vita di Agrìcola lo stesso storico romano stabilisce, fra i britanni e germani, una differenza che ha oggi, come 19 secoli fa, lo stesso valore: mentre i britanni combattevano per la difesa della patria e della famiglia, i germani combattevano per avarizia e per lussuria. Le stesse tribù, schiacciate un tempo a Legnano, hanno ripreso la loro marcia oltre Reno e si accingono a riprendere l'offensiva contro di noi. Ma la " bramosia " di cui parlò Kiihimann non spingerà gli austro-tedeschi oltre il Piave. Il popolo italiano doveva, nei calcoli tedeschi, dopo Caporetto, precipitare nel caos. E invece in piedi. Tanto in piedi che gli austriaci non hanno ancora " osato ". Quali possano essere le vicissitudini di questa fase estrema della guerra, la Germania, che non ci ha vinti isolatamente, potrà vincere la formidabile società delle nazioni che la fronteggiano? Siamo in piedi con la Francia, con i suoi soldati che sono stati meravigliosi di eroismo. E quella Francia che noi conoscevamo così male, semplicemente perché la vedevamo soltanto attraverso ai cabarets di Montmartre, i quali non erano frequentati da francesi ma da avventurieri che piovevano da tutte le parti del mondo, ci ha dato oggi le più belle pagine di eroismo. La Francia sa anche sbarazzarsi dei suoi tentacoli insidiosi e colpisce a morte i grandi ed i piccoli artefici del tradimento e fa crepitare i plotoni di esecuzione: il crepitìo di quelle fucilate è per chi ama la Patria più dolce dell'armonia in un grande spartito. Anche in Italia dobbiamo essere inesorabili contro i traditori per difendere le spalle dei nostri soldati. Non si deve, non si può esitare un minuto solo a sacrificare un uomo, dieci uomini, cento uomini, quando è in gioco l'esistenza nazionale, l'avvenire di milioni di uomini. Siamo in piedi cogli inglesi che ripetono la frase di Nelson: " L'Inghilterra attende con fiducia che ogni cittadino compia fino all'ultimo il proprio dovere ". Siamo in piedi cogli Stati Uniti. Ecco l'Intemazionale. La vera, la profonda, la duratura. Anche se non ha le formule e i dogmi e i crismi del socialismo ufficializzato. Essa è nelle trincee dove i soldati di diverse razze hanno varcato seimila leghe di mare per venire a morire in Europa! Voi mi permetterete di essere ottimista circa l'esito della guerra. Vinceremo perché gli Stati Uniti non possono perdere, perché l'Inghilterra non può perdere, perché la Francia non può perdere. Gli Stati Uniti hanno centodieci milioni di abitanti; una sola leva può dare un milione di recluto. L'America, come l'Inghilterra, sa che sono in gioco tutti i valori, tutti i più grandi interessi, i beni fondamentali della civiltà. Finché noi saremo in questa compagnia non c'è pericolo di una pace rovinosa. Non ^ arrivare al traguardo della pace significa essere schiacciati; ma quando saremo arrivati Bid traguardo potremo guardare anche noi in faccia ai nostri nemici e dire che anche noi, piccolo popolo disprezzato, anche noi, esercito di mandolinisti, abbiamo resistito e abbiamo il diritto a una pace giusta e duratura. Io sono un ottimista e vedo l'Italia di domani sotto una luce rosea. Basta col rappresentare l'Italia col berretto di locandiera, méta di tutti gli sfaccendati, muniti del loro odioso Baedeker; basta collo spolverare vecchi calcinacci: siamo e vogliamo essere un popolo di produttori! Saremo un popolo che si espanderà, senza propositi di conquista: ci imporremo con le nostre industrie, col nostro lavoro. Sarà il nome augusto di Roma che dirigerà ancora la nostra forza nell'Adriatico, golfo del Mediterraneo e nel Mediterraneo strada di comunicazione fra tré continenti. Quelli che sono stati feriti sanno che cosa vuoi dire convalescenza. Viene il giorno in cui il medico non prende più dal vassoio i suoi coltelli spieiati, ma pur benedetti; non vi strazia più le carni doloranti, non vi fa più soffrire. Il pericolo d'infezione è scomparso e voi allora vi sentite rinascere. Comincia una seconda giovinezza. Le cose, gli uomini, la voce di una donna, le carezze di un bambino, il fiorire di un albero, tutto vi da la sensazione ineffabile di un ritomo. Le vene s'inturgidano del sangue nuovo e la febbre del lavoro vi afferra. Anche il popolo italiano avrà la sua convalescenza e sarà una gara per ricostruire dopo aver distrutto. Questa bandiera dei mutilati è il simbolo di un nuovo orientamento della loro vita morale e spirituale. Pensate che certi mistificatori credevano di giovarsi dei mutilati per le loro speculazioni infami! Ed invece i mutilati rispondono: " Non ci prestiamo al turpe gioco, non intendiamo avere dalla vostra simpatia, dalla vostra pietà, un aiuto che ci umilia! " Noi siamo dei cittadini che sono stati più provati degli altri " ! Essi non imprecano; non si lamentano se sono senza una gamba o un braccio; non imprecano neppure quelli che hanno perduto la divina luce degli occhi. Invano i nemici speravano nello stato d'animo di questa gente per approfittarne; a questa loro speranza rispondono che tutto dettero all'Italia, alla loro Patria, ed oggi non le vogliono essere nemmeno di peso e lavorano e si addestrano in ogni cosa per dare un'altra prova del loro amore alla santa causa. Non vedo più relegato nelle lontananze dell'avvenire il giorno in cui i gonfaloni dei mutilati precederanno le bandiere lacere e gloriose dei reggimenti. E attorno alle bandiere ci saranno i reduci e il popolo. Ci saranno anche le ombre grandi dei nostri morti, di tutti i nostri morti, da quelli che caddero sulle Alpi a quelli che si immolarono oltre Isonzo, da quelli che espugnarono Gorizia a quelli che furono falciati fra rHermada e il misterioso Timavo o sulle rive del Piave. Tutta questa sacra Falange noi simboleggiamo in tré nomi: Cesare Battisti che volle affrontare deliberatamente il martirio e non fu mai così bello come quando offerse il collo al boia d'Absburgo; Giacomo Venezian che lasciò le austere aule del vostro Ateneo per correre incontro al suo sogno sulla via di Trieste; Filippo Corridoni, nato dal popolo, combattente col popolo, morto pel popolo sui primi ciglioni della pietraia carsica. I battaglioni dei ritornanti, avranno il passo grave e cadenzato di coloro che molto hanno vissuto e molto hanno sofferto e videro innumeri altri soffrire e morire. Diranno, diremo: " Qui nel solco che ritorna alla messe, qui nell'officina che forgia lo strumento di pace; qui nella città sonante, qui nella silenziosa campagna, ora, che il dovere fu compiuto e la méta raggiunta, piantiamo i segni del nostro nuovo diritto. Indietro le larve! Via i cadaveri che si ostinano a non morire ed ammorbano, col lezzo insopportabile della loro decomposizione, l'atmosfera che dev'essere purificata. Noi, i sopravvissuti, noi i ritornati, rivendichiamo il diritto di governare l'Italia, non già per farla precipitare nella dissoluzione e nel disordine, ma per condurla sempre più in alto, sempre più innanzi; per renderla - nei pensieri e nelle opere - degna di stare fra le grandi nazioni che saranno le direttrici della civiltà mondiale di domani ".

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