Discorso
pronunciato in Roma all'Augusteo in occasione
del Congresso Fascista che ebbe luogo il 21 giugno 1925.
Camerati!
Stasera sono in vena, ed avendo superato la noia che io debbo
superare tutte le volte che debbo pronunziare un discorso, attendetevene
uno che vi darà un'ora di grande allegrezza, perché
sarà schiettissimo nella forma e nella sostanza. Ecco un
congresso che ha sbalordito i nostri avversari. (Applausi). Lo
abbiamo ridotto sul preventivato del cinquanta per cento. Credo
che se noi avessimo avuto volontà, probabilmente il congresso
sarebbe finito prima di cominciare. Perché? Perché
il Partito si è trovato dinanzi a dei fatti compiuti, a
delle opere ultimate. Il Partito Nazionale Fascista è oggi
granitico ed unanime come non fu mai. Tutte le volte che io sentivo
qualcuno di voi rinunziare alla parola, tutte le volte che io
dovevo sospingere qualcuno di voi alla tribuna, vi avrei abbracciato.
(Applausi). L'ho sognata io la generazione italiana dei silenziosi
operanti. L'ho voluta io, riducendo il mio stile ed abolendo tutto
ciò che era decorazione, fronzolo, superficialità.
Annullando tutti i residui del seicentismo, tutta la ciarla vana
che era necessaria quando gli italiani si riunivano per discutere
quali degli immortali principi erano marciti e quali dovevano
ancora marcire. E sono sicuro che quei signori che si sono autodefiniti
i sacerdoti ufficianti di una misteriosa divinità che si
chiama l'opinione pubblica e della quale noi ci strainfischiamo,
sono sicuro che i giornalisti avversari o eziandio fiancheggiatori
troveranno che un congresso che non parla, un congresso di soldati
e non di politici, è una specie di abominazione. Noi siamo
ancora per fortuna un esercito. Io sapevo che nessuno di voi era
invecchiato. Pur tuttavia temevo che quattro anni di tempo avessero
dato alla vostra corporatura quel di più di adipe che accompagna
il triste passaggio dei quarant'anni. Siete ancora sveltissimi,
muscolosi, agilissimi, veramente degni di incarnare la giovinezza
d'Italia. E questo congresso, malgrado il passaggio del tempo,
è stato ancora più fascista di quello che non fosse
il congresso di quattro anni or sono. Parlo ai fascisti; parlerò
quindi preciso. Il segretario generale del Partito ha dato le
direttive, ma io le voglio precisare ancora. Credo che siate tutti
d'accordo che non si debbano più dare tessere ad honorem.
Noi non vogliamo creare questa specie di giubilati o di senatori
del Partito. (Applausi). D'ora innanzi per avere una tessera ad
honorem bisognerà o avere scritto un poema più bello
della Divina Commedia, o avere scoperto il sesto continente, oppure
aver trovato i! mezzo d'annullare il nostro debito cogli anglosassoni.
Credo anche che tutti voi siate d'accordo nel deprecare la violenza
spicciola, la violenza bruta, inintelligente, che noi non possiamo
coprire, ma dobbiamo colpire. La camicia nera non è la
camicia di tutti i giorni e non è nemmeno una uniforme:
è una tenuta di combattimento e non può essere indossata
se non da coloro che nel petto alberghino un animo puro. Voi sapete
quello che io penso della violenza. Per me essa è profondamente
morale, più morale del compromesso e della transazione.
Ma perché abbia in se stessa la giustificazione della sua
alta moralità, è necessario che sia sempre guidata
da un'idea, giammai da un basso calcolo, da un meschino interesse,
e sopratutto bisogna evitare la violenza contro coloro che non
sono colpevoli o piuttosto ignoranti o fanatici. Ora vi farò
una confessione che vi riempirà l'animo di raccapriccio.
Sono pensoso prima di farla. Non ho mai letto una pagina di Benedetto
Croce. Questo vi dica quello che io penso di un fascismo che fosse
"culturizzato" con la "kappa" tedesca. I filosofi
risolvono dieci problemi sulla carta, ma sono però incapaci
di risolverne uno solo nella realtà della vita. Io ammetto
l'intelligenza fascista e sono stato favorevole a che sorgessero
delle rivistine e dei giornali di combattimento intellettuale,
ma desidero che costoro aguzzino il loro ingegno per fare la critica
spietata dal punto di vista fascista del socialismo, del liberalismo,
della democrazia. Ma se invece costoro debbono utilizzare l'ingurgitamento
della cultura universitaria, che io consiglio di rapidamente assimilare
e di espellere non meno rapidamente, se costoro non fanno che
vessare e ipercriticare tutto quello che di criticabile c'è
in un movimento così complesso come il movimento fascista,
allora io vi dichiaro schiettamente che preferisco al cattedratico
impotente lo squadrista che agisce. Ieri ho detto all'on. Rossoni,
che bisognava difendere il lavoro. Certamente, ma non è
vero che io sia scettico sul sindacalismo. Volevo veder chiaro
nelle cifre. Ma io sono un vecchio sindacalista. Io ritengo che
il fascismo debba applicare gran parte delle sue energie all'organizzazione
e all'inquadramento delle masse lavoratrici, anche perché
ci vuole qualcuno che seppellisca il liberalismo. Il sindacalismo
è l'affossatore del liberalismo. Il sindacalismo, quando
raccolga le masse, le inquadri, le selezioni, le purifichi e le
elevi, è la creazione nettamente antitetica alla concezione
atomistica e molecolare del liberalismo classico. Poi, o camerati,
non è più il caso di discutere sull'opportunità
o meno del sindacalismo. Come sempre, il fatto, nel fascismo,
ha preceduto la dottrina. Bisogna fare del sindacalismo senza
demagogia, del sindacalismo selettivo ed educativo, del sindacalismo,
se volete, mazziniano, che non prescinda mai, parlando dei diritti,
dei doveri, che bisogna necessariamente compiere. Voglio combattere
una piccola stortura che affiora qua e là nelle provincie.
Spesso essa è il risultato di un capriccio o di uno scherzo,
quando non sia originata da altri impulsi. Tale stortura io combatto
recisissimamente ed è la stortura antiromana. Signori,
io sono romano! Signori, è ora di finirla con i municipalismi!
In uno Stato bene ordinato non c'è che una capitale e quando
questa capitale si chiama Roma, tutti hanno il dovere di sentire
l'ineffabile orgoglio di essere un gregario di questa immensa
e superba capitale. Prima di tutto non è vero che a Roma
non vi sia il fascismo e che Roma sia una specie di sentina. In
ogni caso la farebbero gli italiani, perché, i romani sono
la minoranza di Roma; ma poi tutto ciò è nemico,
o signori, di quella concezione dell'impero che è la base
della nostra dottrina. E l'unica città che nelle rive del
Mediterraneo, fatale e fatato, abbia creato l'impero è
Roma. Noi abbiamo i nostri morti, i nostri gloriosissimi morti,
e non è senza una grande commozione che ieri io sfogliavo
il libro che è dedicato alla loro memoria. Ma non bisogna
fare troppe cerimonie per i nostri morti e vi prego, uscendo di
qui, di non andare al Milite Ignoto. Non bisogna dare l'impressione
che il Milite Ignoto sia diventato una specie di passeggiata obbligatoria.
Ormai ci vanno tutti, anche quelli che sono responsabili della
morte di tanti militi più o meno ignoti, sacrificati dal
disfattismo di prima, di durante, di dopo la guerra. Ed ora che
ho parlato a voi, parlo agli altri. Noi siamo indicati come i
revisori dello Statuto, come i tiranni che hanno ucciso la dea
libertà, come i calpestatori della Costituzione. C'è
un Giosuè liberale che proietta le sue posteriorità
eminenti all'orizzonte e grida: "Fermati o sole!". Quanti
ne abbiamo di questi Giosuè all'ingiro! E il sole si sarebbe
fermato il 4 marzo del 1848, quando fu concesso lo Statuto! Ebbene,
io ho una grande venerazione per lo Statuto, come ho una grande
venerazione per tutte le cose che rappresentano un episodio significativo
nella storia della nazione italiana. Ma lo Statuto, o signori,
non può essere un gancio al quale si debbano impiccare
tutte le generazioni italiane. Lo stesso Cavour, all'indomani
della promulgazione dello Statuto, diceva che lo Statuto è
modificabile. La stessa tesi fu sostenuta di poi da Minghetti,
da Crispi, da Bertani e da moltissimi altri. Lo Statuto era adatto
al Piemonte del 1848, il quale Piemonte ha moltissimi meriti,
ma non ha quello dello Statuto. Non è il Piemonte che ha
dato lo Statuto all'Italia: è l'Italia che ha dato lo Statuto
al Piemonte. Notate, o signori, che il Piemonte ha una importanza
straordinaria nella storia, della nazione italiana perché
per molti secoli è stato l'unico Stato nazionale, l'unico
Stato che faceva una politica internazionale, l'unico Stato che
aveva un esercito, che partecipava a tutte le grandi guerre europee,
l'unico Stato che nel '48 ha avuto il coraggio, piccolo Stato
di pochi milioni di uomini, di andare contro quel grande colosso
che era l'Austria di allora. Ma non ha il merito dello Statuto:
giorno per giorno noi dobbiamo violarlo. Guai se lo portassimo
fuori all'aria libera! Lo Statuto nel '48 non contemplava le colonie.
E forse un governatore di colonia non ha diritto di far parte
al Senato? (Tutto il congresso scatta in piedi e grida ripetutamente:
"Viva De Vecchi"). Forse Sua Maestà il re non
ha il diritto di comandare le Forze Armate dell'aria dal momento
che lo Statuto non contemplava anche l'aviazione? E di questi
casi anacronistici potrei farne una collana. Ma poi voglio dichiararvi
ancora che non è vero che le istituzioni non possano diventare
fasciste. Non solo possono, debbono! Prima del '48, le istituzioni
erano assolutiste. Dopo il '48, si acconciarono al liberalismo.
E perché ora che siamo una nazione di quaranta milioni
di abitanti, che abbiamo ancora calda nel pugno la vittoria, che
siamo tutti frementi delle nuove vite e delle nuove aurore, perché
adesso si deve negare la possibilità che le istituzioni
si adeguino alla realtà inestinguibile del littorio? Certo,
vi sono delle novità. Guai se una rivoluzione non portasse
delle novità! La magia di questa parola scomparirebbe.
Le novità sono le seguenti. Abbiamo domato il parlamentarismo.
La Camera non dà più quello spettacolo nauseabondo
che dava in altri tempi; si discute, si approva, si legifera,
perché questo è appunto il programma di una assemblea
legislativa. E abbiamo portato al primo piano il potere esecutivo.
Intenzionalmente, perché il portare al primo piano il potere
esecutivo è veramente nelle linee maestre della nostra
dottrina, perché, signori, il potere esecutivo è
il potere onnipresente ed operante nella vita della nazione, è
il potere che esercita il potere ad ogni minuto, è il potere
che ad ogni momento si trova di fronte a problemi che deve risolvere;
è, signori, il potere che decreta le cose più grandi
che possano capitare nella storia di un popolo; è il potere
che dichiara la guerra e conclude la pace. Questo potere esecutivo,
che dispone poi di tutte le Forze Armate dello Stato, che deve
mandare avanti giorno per giorno la complessa macchina dell'amministrazione
statale, non può essere ridotto a ruolo di secondo ordine,
non può essere ridotto ad un gruppo di manichini che le
assemblee fanno ballare a seconda dei loro capricci. ("Benissimo!").
Il potere esecutivo è il potere sovrano della nazione,
tanto è vero che il suo capo è il re. ("Bravo!".
Tutto il congresso sorge in piedi e plaude lungamente e calorosamente
al re. La manifestazione si prolunga per alcuni minuti). E, naturalmente,
da questa preminenza del potere esecutivo discende, per ragione
diretta, tutta la nostra legislazione. Approvando la legge sulla
burocrazia, il Governo fascista ha reso il più alto omaggio
alla burocrazia, l'ha elevata allo stesso suo piano. Si può
considerare la burocrazia come una massa di domestici e di impiegati
che danno un rendimento più ó meno lodevole e che
poi scompaiono dalla pluralità dei cittadini. Si può
considerare la burocrazia, come la consideravano alcuni ministri
del vecchio regime, come una accolta di complici. Noi invece consideriamo
la burocrazia come una parte integrante dello Stato. La burocrazia
è lo Stato, è nello Stato e nelle viscere profonde
dello Stato, non può straniarsi da questi sua inserzione,
e se così è, e se è vero, come è vero,
che lo Stato è rappresentato dal Governo, è evidente
che, volendo che la burocrazia abbia le direttive generali dal
Governo, volendo che la burocrazia si consideri come un esercito
di collaboratori operante allo stesso fine, si fa il massimo elogio
alla burocrazia e la si porta ad un piano ben più elevato
di quello in cui la tenevano i vecchi Governi. ("Benissimo!").
Che cosa vogliamo noi? Una cosa superba: vogliamo che gli italiani
scelgano! È finito il tempo dei piccoli italiani, che avevano
mille opinioni e non ne avevano una. Abbiamo portato la lotta
sopra un terreno così netto che ormai bisogna essere o
di qua o di là, non solo, ma quella mèta che viene
definitiva la nostra feroce volontà totalitaria sarà
perseguita con ancora maggiore ferocia, diventerà veramente
l'assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività.
Vogliamo insomma fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano
e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la
stessa cosa. Solo avendo questi grandi ideali si può parlare
di rivoluzione, si può impiegare questa magica e tremenda
parola. Ora che abbiamo votato le leggi fasciste, le leggi di
difesa, perché dopo verranno le leggi di creazione e di
costruzione, i nostri avversari non sono ancora convinti dell'ineluttabile.
Sperano. Avete capito.... Sperano nel Senato. Alcuni anni fa il
Senato italiano, che pure ha così nobili tradizioni nella
storia politica della nazione, era decaduto. Era un nobile decaduto.
Noi, che siamo giovani, abbiamo compreso l'importanza di questa
Assemblea e ne abbiamo ripristinato lo splendore. II Senato approverà
le leggi fasciste; prima di tutto perché il Governo vi
ha la maggioranza; in secondo luogo perché noi le difenderemo;
in terzo luogo perché il Senato, nel suo alto patriottismo,
non vorrà certo assumersi la responsabilità di un
contrasto che determinerebbe una crisi di conseguenze assai gravi.
Oggi il fascismo è un Partito, è una Milizia, è
una corporazione. Non basta: deve diventare qualche cosa di più,
deve diventare un modo di vita. Ci debbono essere gli italiani
del fascismo, come ci sono, a caratteri inconfondibili, gli italiani
della Rinascenza e gli italiani della latinità. Solo creando
un modo di vita, cioè un modo di vivere, noi potremo segnare
delle pagine nella storia e non soltanto nella cronaca. E quale
è questo modo di vita? Il coraggio, prima di tutto; l'intrepidezza,
l'amore del rischio, la ripugnanza per il panciafichismo e per
il pacifondaismo; l'essere sempre pronti ad osare nella vita individuale
come nella vita collettiva ed aborrire tutto ciò che è
sedentario. Nei rapporti, la massima schiettezza; i colloqui a
quattro e non le vociferazioni clandestine, anonime e vili (applausi
vivissimi); l'orgoglio in ogni ora della giornata di sentirsi
italiani; la disciplina del lavoro; il rispetto per l'autorità.
L'italiano nuovo, io ne vedo già un campione, è
De Pinedo. Portando nella vita tutto quello che sarebbe grave
errore di confinare nella politica, noi creeremo, attraverso una
opera di selezione ostinata e tenace, le nuove generazioni, e
nelle nuove generazioni ognuno avrà un compito definito.
A volte mi sorride l'idea delle generazioni di laboratorio, di
creare cioè la classe dei guerrieri, che è sempre
pronta a morire; la classe degli inventori, che persegue il segreto
del mistero; la classe dei giudici; la classe dei grandi capitani
di industria, dei grandi esploratori, dei grandi governatori.
Ed è attraverso questa selezione metodica che si creano
le grandi categorie, le quali a loro volta creano gli imperi.
Questo sogno è superbo, ma io vedo che a poco a poco sta
diventando una realtà. Noi non rinneghiamo nulla del passato.
Noi consideriamo che il liberalismo ha significato qualche cosa
nella storia d'Italia, anche se furono Governi liberali quelli
che non vollero l'Albania, quelli che non vollero Tunisi, quelli
che non vollero andare in Egitto; anche se furono Governi liberali
quelli che nel dopoguerra ebbero un solo delirio: quello di abbandonare
le terre dove eravamo. Quale è dunque il nostro metodo?
La parola d'ordine, o fascisti, è questa: intransigenza
assoluta, ideale e pratica. La seconda parola d'ordine: tutto
il potere a tutto il fascismo. (Applausi. Si grida: "Viva
Mussolini!"). Coloro che hanno avuto dal destino il compito
di guidare una rivoluzione, sono come i generali che hanno avuto
dal destino il compito di condurre una guerra. Guerra e rivoluzione
sono due termini che vanno quasi sempre accoppiati. O è
la guerra che determina la rivoluzione o è la rivoluzione
che sbocca in una guerra. Anche la strategia dei due movimenti
si rassomiglia. Come in una guerra, così in una rivoluzione
non sempre si va all'assalto. Qualche volta bisogna conoscere
le ritirate più o meno strategiche. Qualche volta bisogna
stagnare lungamente nelle posizioni conquistate. Ma la mèta
è quella: l'impero. Fondare una città, scoprire
una colonia, creare un impero, sono i prodigi dello spirito umano.
Un impero non è soltanto territoriale. Può essere
politico, economico, spirituale. L'impero non è peraltro
una creazione improvvisa. L'Inghilterra ha avuto Gibilterra dopo
la pace di Utrecht, ha avuto Malta dopo Waterloo, ha avuto Cipro
nei 1878. Sono corsi due secoli prima che l'Inghilterra avesse
quelle che si chiamano le chiavi fondamentali del suo impero.
Dobbiamo tendere a questo ideale. Bisogna allora abbandonare risolutamente
tutta la fraseologia e la mentalità liberale. La parola
d'ordine non può essere che questa: disciplina; disciplina
all'interno per avere di fronte all'estero il blocco granitico
di un'unica volontà nazionale. Camerati, quattro anni fa
io vi dissi in questa stessa sala, e molti di voi erano presenti
e sono oramai quelli che si potrebbero chiamare i veterani del
fascismo, dissi: Guarite di me! Non è stato possibile,
evidentemente. (Si grida: "No! No!" Rossoni: "Non
è possibile!"). Perché evidentemente ogni grande
movimento deve avere un uomo rappresentativo che di questo movimento
soffra tutta la passione e porti tutta la fiamma. Ebbene, o camerati,
ritornate alle vostre terre, che io amo, e gridate con alta voce
e con sicura coscienza che la bandiera della rivoluzione fascista
è affidata alle mie mani e che io sono disposto a difenderla
contro chiunque, anche a prezzo del mio sangue.
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