Discorso
pronunciato alla II assemblea della corporazioni
Camerati, solenni sono le circostanze nelle quali l'Assemblea
delle Corporazioni si riunisce, una seconda volta, su questo colle
che riempì del suo nome il mondo: siamo in tempo di guerra,
cioè nel tempo più duro e più impegnativo
nella vita di un popolo. Un altro evento accresce la solennità
e la gravità di quest'ora: l'assedio che cinquantadue paesi
decisero contro l'Italia; che alcuni, dopo aver votato, non applicarono
obbedendo alla voce delle loro coscienze; che tre Stati: Austria,
Ungheria, Albania respinsero, poiché, oltre i doveri dell'amicizia,
ripugnò loro l'onta del procedimento che metteva sullo
stesso piano l'Italia madre di civiltà, e un miscuglio
di razze autenticamente e irrimediabilmente barbare, quale l'Abissinia.
Nel quinto mese dell'assedio che rimarrà nella storia d'Europa
come un marchio d'infamia, così come gli aiuti materiali
e morali forniti all'Abissinia vi rimarranno come una pagina di
disonore, l'Italia non solo non è piegata, ma è
in grado di ripetere che l'assedio non la piegherà mai.
Solo una ignoranza opaca poteva pensare il contrario. Nostro stretto
dovere era di tirare diritto. Lo abbiamo fatto, ma più
di noi, incomparabilmente più di noi, lo hanno fatto i
soldati e le Camicie nere, che hanno spezzato la tracotanza abissina,
schiacciandone le forze armate. La vittoria bacia le nostre bandiere
e quel che i soldati conquistarono è ormai un territorio
consacrato alla Patria. Parta da questo colle verso i lidi africani
il saluto della Rivoluzione alle falangi vittoriose dell'Italia
fascista! L'assedio economico che è stato decretato per
la prima volta contro l'Italia perché si è contato,
secondo una frase pronunziata nella riunione locarniana di Parigi
del 10 marzo, sulla "modestia del nostro potenziale industriale",
ha sollevato una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono
in questa proposizione: l'autonomia politica, cioè la possibilità
di una politica estera indipendente, non si può più
concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica.
Ecco la lezione che nessuno di noi dimenticherà! Coloro
i quali pensano che finito l'assedio si ritornerà alla
situazione del 17 novembre, s'ingannano. Il 18 novembre 1935 è
ormai una data che segna l'inizio di una nuova fase della storia
italiana. Il 18 novembre reca in sé qualche cosa di definitivo,
vorrei dire di irreparabile. La nuova fase della storia italiana
sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più
breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella
vita economica della Nazione. Nessuna Nazione del mondo può
realizzare sul proprio territorio l'ideale dell'autonomia economica
in senso assoluto, cioè al 100 per 100, e se anche lo potesse,
non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi
nella misura più larga dalle servitù economiche
straniere. V'è un settore nel quale soprattutto si deve
tendere a realizzare questa autonomia il settore della difesa
nazionale. Quando questa autonomia manchi, ogni possibilità
di difesa è compromessa. La politica sarà alla mercé
delle prepotenze straniere, anche soltanto economiche; la guerra
economica, la guerra invisibile - inaugurata da Ginevra contro
l'Italia - finirebbe per aver ragione di un popolo anche se composto
di eroi. Il tentativo di questi mesi è ammonitore al riguardo.
Per vedere se e in quali limiti l'Italia può realizzare
la sua autonomia economica nel settore della difesa nazionale,
bisogna procedere all'inventario delle nostre risorse e stabilire
inoltre quel che ci può dare la tecnica e la scienza. Per
questo abbiamo creato e date le agevolazioni necessarie al Consiglio
Nazionale delle Ricerche. Giova premettere altresì che
in caso di guerra si sacrificano, in parte o al completo, i consumi
civili. Cominciamo l'inventario dal lato più negativo:
quello dei combustibili liquidi: le ricerche del petrolio nel
territorio nazionale sono in corso, ma finora senza risultati
apprezzabili: per sopperire al fabbisogno di combustibili liquidi
contiamo - specie in tempo di guerra - sulla idrogenazione delle
ligniti, sull'alcool proveniente dai prodotti agricoli, sulla
distillazione delle rocce asfaltifere. Il patrimonio lignitifero
italiano supera i 200 milioni di tonnellate. Quanto ai combustibili
solidi non potremmo fare a meno - allo stato attuale della tecnica
- di alcune qualità di carbone pregiato destinato a speciali
consumi: per tutto il resto si impiegheranno i carboni nazionali:
il liburnico, il sardo, l'aostano. L'Azienda Carboni Italiani
ha già realizzato importanti progressi, la produzione è
in grande aumento, con piena soddisfazione del consumo. Io calcolo
che potremo, colle nostre risorse, più la elettrificazione
delle ferrovie, più il controllo della combustione, sostituire
in un certo lasso di tempo dal 40 al 50 per cento del carbone
straniero. Passiamo ora ai minerali metallici ed altri. Abbiamo
ferro sufficiente per il nostro fabbisogno di pace e di guerra.
La vecchia Elba sembra inesauribile: il bacino di Cogne è
valutato a molte decine di milioni di tonnellate di un minerale
che dopo quello svedese è il più puro d'Europa:
unico inconveniente, la quota di 2800 metri alla quale si trova,
inconveniente, dico, non impedimento. Altre miniere di ferro sono
quelle riattivate della Nurra e di Valdaspra. Aggiungendo al minerale
di ferro le piriti, da questo lato possiamo stare tranquilli.
Altri minerali che l'Italia possiede in grandi quantità
sono: bauxite e leucite per l'alluminio, zinco, piombo, mercurio,
zolfo, manganese. Stagno e nichelio esistono in Sardegna e in
Piemonte. Non abbiamo rame in quantità degna di rilievo.
Passando ad altre materie prime, non abbiamo sino ad oggi, ma
avremo fra non molto, la cellulosa; non abbiamo gomma. È
nel 1936 che si riprenderà la coltura del cotone. Manchiamo
di semi oleosi. Nell'attesa della lana sintetica prodotta su scala
industriale, la lana naturale non copre il nostro consumo. La
deficienza di talune materie prime tessili non è tuttavia
preoccupante; è questo il campo dove la scienza, la tecnica
e l'ingegno degli italiani possono più largamente operare
e stanno infatti operando. La ginestra, ad esempio, che cresce
spontanea dovunque, era conosciuta da molti italiani, soltanto
perché Leopardi vi dedicò una delle sue più
patetiche poesie: oggi è una fibra tessile che può
essere industrialmente sfruttata. 144 milioni di italiani avranno
sempre gli indumenti necessari per coprirsi: la composizione di
questi tessuti è - in questi tempi - una faccenda assolutamente
trascurabile. La questione delle materie prime va dunque, una
volta per tutte, posta non nei termini nei quali la poneva il
liberalismo rinunciatario e rassegnato a una eterna inferiorità
dell'Italia, riassumentesi nella frase oramai divenuta abusato
luogo comune, che l'Italia è povera di materie prime. Deve
dirsi invece: l'Italia non possiede talune materie prime, ed è
questa una fondamentale ragione delle sue esigenze coloniali;
l'Italia possiede in quantità sufficiente alcune materie
prime; l'Italia è ricca di molte altre materie prime. Questa
è l'esatta rappresentazione della realtà delle cose
e questo spiega la nostra convinzione che l'Italia può
e deve raggiungere il massimo livello utile di autonomia economica
per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra. Tutta
la economia italiana deve essere orientata verso questa suprema
necessità: da essa dipende l'avvenire del popolo italiano.
Arrivo ora ad un punto molto importante del mio discorso: a quello
che chiamerò "il piano regolatore" della economia
italiana nel prossimo tempo fascista. Questo piano è dominato
da una premessa: l'ineluttabilità che la nazione sia chiamata
al cimento bellico. Quando? Come? Nessuno può dire, ma
la ruota del destino corre veloce. Se così non fosse, come
si spiegherebbe la politica di colossali armamenti inaugurata
da tutte le Nazioni? Questa drammatica eventualità deve
guidare tutta la nostra azione. Nell'attuale periodo storico il
fatto guerra è, insieme con la dottrina del Fascismo, un
elemento determinante della posizione dello Stato di fronte all'economia
della Nazione. Come dissi a Milano nell'ottobre del 1934, il Regime
Fascista non intende statizzare o, peggio, funzionarizzare l'intera
economia della Nazione; gli basta controllarla e disciplinarla
attraverso le Corporazioni, la cui attività da me seguita
è stata di grande rendimento e offre le condizioni di ulteriori
metodici sviluppi. Le Corporazioni sono organi dello Stato, ma
non organi semplicemente burocratici dello Stato. Vado all'analisi.
Il fondamentale settore dell'agricoltura non è - nella
sua struttura -suscettibile di notevoli cambiamenti. Nessuna innovazione
sostanziale alle forme tradizionali dell'economia agricola italiana.
Esse rispondono bene allo scopo, che è quello di assicurare
il fabbisogno alimentare del popolo italiano e fornire talune
materie prime alle industrie. L'economia agricola resta quindi
una economia a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato
perché raggiunga medie sempre più alte di produzione
e armonizzata attraverso le Corporazioni con tutto il resto dell'economia
nazionale. V'è da affrontare e risolvere il problema dell'avventiziato
agricolo o bracciantato, su linee che il Fascismo ha già
tracciato. Quanto all'attività commerciale, bisogna distinguerne
i due aspetti: quello esterno che è diventato funzione
diretta o indiretta dello Stato e nient'affatto contingente come
qualcuno potrebbe credere, e quello interno che - ottenuto l'autodisciplinamento
delle categorie - non cambierà di molto la sua fisionomia.
Il campo del commercio resta affidato all'attività individuale
o dei gruppi o delle cooperative. Per quanto riguarda il settore
del credito che sta all'economia come il sangue all'organismo
umano i recenti provvedimenti lo hanno logicamente portato sotto
il controllo diretto dello Stato. Questo settore è per
mille ragioni di assoluta pertinenza dello Stato. Passando alla
produzione artigiana e industriale dichiaro che l'artigianato
sarà aiutato: esso, specie in Italia, è insostituibile.
Non è solo per omaggio a una gloriosa tradizione che lo
difendiamo, ma per la sua utilità presente. Piccola e media
industria rimarranno nell'ambito della iniziativa e della responsabilità
individuale armonizzata in senso nazionale e sociale dall'autodisciplina
corporativa. Quanto alla grande industria che lavora direttamente
o indirettamente per la difesa della Nazione e ha formato i suoi
capitali colle sottoscrizioni azionarie, e per l'altra industria
sviluppatasi sino a diventare capitalistica o supercapitalistica,
il che pone dei problemi non più di ordine economico ma
sociale, essa sarà costituita in grandi unità corrispondenti
a quelle che si chiamano le industrie chiavi e assumerà
un carattere speciale nell'orbita dello Stato. L'operazione in
Italia sarà facilitata dal fatto che lo Stato già
possiede attraverso l'I.R.I. forti aliquote e talora la maggioranza
del capitale azionario dei principali gruppi di industrie che
interessano la difesa della Nazione. L'intervento statale in queste
grandi unità industriali sarà diretto o indiretto?
Assumerà la forma della gestione o del controllo? In taluni
rami potrà essere gestione diretta, in altri indiretta,
in altri un efficiente controllo. Si può anche pensare
ad imprese miste, nelle quali Stato e privati formano il Capitale
e organizzano la gestione in comune. È perfettamente logico
che nello Stato fascista questi gruppi di industrie cessino di
avere anche "de jute" quella fisionomia di imprese a
carattere privato che "de facto" hanno, dal 1930-31,
del tutto perduto. Queste industrie - e per il loro carattere
e per il loro volume e per la loro importanza decisiva ai fini
della guerra - esorbitano dai confini della economia privata per
entrare nel campo della economia statale e parastatale. La produzione
che esse forniscono ha un unico compratore: lo Stato. Andiamo
verso un periodo durante il quale queste industrie non avranno
né tempo né possibilità di lavorare per il
consumo privato, ma dovranno lavorare esclusivamente o quasi per
le forze armate della Nazione. V'è anche una ragione di
ordine squisitamente morale che ispira le nostre considerazioni:
il Regime Fascista non ammette che individui e società
traggano profitto da quell'evento che impone i più severi
sacrifici alla Nazione. Il triste fenomeno del pescecanismo non
si verificherà più in Italia. Questa trasformazione
costituzionale di un vasto importante settore della nostra economia,
sarà fatta senza precipitazioni, con calma, ma con decisione
fascista. Vi ho così tracciato su grandi linee quello che
sarà domani il panorama della Nazione dal punto di vista
dell'economia. Come vedete, l'economia corporativa è multiforme
e armonica. Il Fascismo non ha mai pensato di ridurla tutta ad
un massimo comune denominatore statale: di trasformare cioè
in "monopolio di Stato" tutta l'economia della Nazione:
le Corporazioni la disciplinano e lo Stato non la riassume se
non nel settore che interessa la sua difesa, cioè l'esistenza
e la sicurezza della Patria. In questa economia dagli aspetti
necessariamente vari come è varia l'economia di ogni Nazione
ad alto sviluppo civile, i lavoratori diventano - con pari diritti
e pari doveri - collaboratori nell'impresa allo stesso titolo
dei fornitori di capitale o dei dirigenti tecnici. Nel tempo fascista
il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, diventa il metro
unico col quale si misura l'utilità sociale e nazionale
degli individui e dei gruppi. Una economia come quella di cui
vi ho tracciato le linee maestre, deve poter garantire tranquillità,
benessere, elevazione materiale e morale alle masse innumeri che
compongono la Nazione e che hanno dimostrato in questi tempi il
loro alto grado di coscienza nazionale e la loro totalitaria adesione
al Regime. Devono raccorciarsi, e si raccorceranno nel sistema
fascista, le distanze fra le diverse categorie di produttori,
i quali riconosceranno le gerarchie del più alto dovere
e della più dura responsabilità. Si realizzerà
nell'economia fascista quella più alta giustizia sociale
che dal tempo dei tempi è l'anelito delle moltitudini in
lotta aspra e quotidiana con le più elementari necessità
della vita. È la seconda volta che si riunisce sul Campidoglio
l'Assemblea Nazionale delle Corporazioni. Qualcuno ha la legittima
curiosità di domandare: che cosa accadrà di questa
Assemblea? Qual è il posto ch'essa prenderà nell'economia
costituzionale dello Stato italiano? A questi interrogativi fu
già data una risposta e precisamente nel mio discorso del
14 novembre 1933, Anno XI, al quale vi rimando e nel quale annunciavo
che il Consiglio Nazionale delle Corporazioni poteva benissimo
sostituire e avrebbe finito per sostituire "in toto"
la Camera dei Deputati. Confermo, oggi, questo intendimento. La
Camera già promiscua nella sua composizione perché
parte dei suoi membri sono anche membri di questa Assemblea, cederà
il posto all'Assemblea Nazionale delle Corporazioni che si costituirà
in "Camera dei Fasci e delle Corporazioni" e risulterà
in un primo tempo dal complesso delle 22 Corporazioni. I modi
coi quali la nuova Assemblea rappresentativa e legislativa si
formerà, le norme per il suo funzionamento, le sue attribuzioni,
le sue prerogative, il suo carattere costituiscono problemi di
ordine dottrinale, e anche tecnico, che saranno esaminati dall'organo
supremo del Regime: il Gran Consiglio. Quest'Assemblea sarà
assolutamente "politica" poiché quasi tutti i
problemi dell'economia non si risolvono se non portandoli sul
piano politico. D'altra parte le forze che si potrebbero, forse
un poco arbitrariamente, chiamare extra economiche, saranno rappresentate
dal Partito e dalle Associazioni riconosciute. Ora mi domanderete
quando questa profonda, ma già matura, trasformazione costituzionale
si verificherà e io vi rispondo che la data non è
lontana, pure essendo legata all'epilogo vittorioso della guerra
africana e agli avvenimenti della politica europea. Colle trasformazioni
economiche di cui vi ho parlato e con questa innovazione sul terreno
politico-costituzionale, la Rivoluzione Fascista realizza in pieno
i suoi postulati fondamentali, che l'adunata di Piazza San Sepolcro,
17 anni or sono, acclamò. Sicuro entro le sue frontiere,
grazie alla mole dei suoi armamenti e allo spirito dei suoi combattenti;
munito di strumenti politici e sociali sempre più adeguati
alle condizioni della sua vita e all'evoluzione dei tempi, e in
anticipo su tutti i paesi del mondo, il popolo italiano ha oggi
dischiuse - grazie al Fascismo -le vie di una sempre crescente
potenza. L'assedio societario ha collaudato la tempra della stirpe
e come non mai l'unità delle anime. Il sacrificio affrontato
dal popolo italiano in Africa è un immenso servigio reso
alla civiltà e alla pace del mondo e anche a quelle vecchia
troppo sazie potenze coloniali che hanno commesso l'incredibile
errore storico di ostacolarci. L'Italia, in Africa, conquista
dei territori, ma per liberare le popolazioni che da millenni
sono in balìa di pochi capi sanguinari e rapaci. Lo slancio
vitale del popolo italiano non fu e non sarà fermato dalle
reti proceduristiche di un patto che invece della pace reca all'umanità
le prospettive di guerra sempre più vaste: trenta secoli
di storia, e quale storia!, la volontà indomita delle generazioni
che si avvicendano e salgono, la capacità di sacrificio
più alto, quello del sangue, dimostrata tre volte in questo
primo periodo di secolo, sono elementi sufficienti per alimentare
la nostra fede e aprirci le porte dell'avvenire.
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