DISCORSO DEL
23 marzo 1936
Discorso pronunciato alla II assemblea della corporazioni

Camerati, solenni sono le circostanze nelle quali l'Assemblea delle Corporazioni si riunisce, una seconda volta, su questo colle che riempì del suo nome il mondo: siamo in tempo di guerra, cioè nel tempo più duro e più impegnativo nella vita di un popolo. Un altro evento accresce la solennità e la gravità di quest'ora: l'assedio che cinquantadue paesi decisero contro l'Italia; che alcuni, dopo aver votato, non applicarono obbedendo alla voce delle loro coscienze; che tre Stati: Austria, Ungheria, Albania respinsero, poiché, oltre i doveri dell'amicizia, ripugnò loro l'onta del procedimento che metteva sullo stesso piano l'Italia madre di civiltà, e un miscuglio di razze autenticamente e irrimediabilmente barbare, quale l'Abissinia. Nel quinto mese dell'assedio che rimarrà nella storia d'Europa come un marchio d'infamia, così come gli aiuti materiali e morali forniti all'Abissinia vi rimarranno come una pagina di disonore, l'Italia non solo non è piegata, ma è in grado di ripetere che l'assedio non la piegherà mai. Solo una ignoranza opaca poteva pensare il contrario. Nostro stretto dovere era di tirare diritto. Lo abbiamo fatto, ma più di noi, incomparabilmente più di noi, lo hanno fatto i soldati e le Camicie nere, che hanno spezzato la tracotanza abissina, schiacciandone le forze armate. La vittoria bacia le nostre bandiere e quel che i soldati conquistarono è ormai un territorio consacrato alla Patria. Parta da questo colle verso i lidi africani il saluto della Rivoluzione alle falangi vittoriose dell'Italia fascista! L'assedio economico che è stato decretato per la prima volta contro l'Italia perché si è contato, secondo una frase pronunziata nella riunione locarniana di Parigi del 10 marzo, sulla "modestia del nostro potenziale industriale", ha sollevato una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in questa proposizione: l'autonomia politica, cioè la possibilità di una politica estera indipendente, non si può più concepire senza una correlativa capacità di autonomia economica. Ecco la lezione che nessuno di noi dimenticherà! Coloro i quali pensano che finito l'assedio si ritornerà alla situazione del 17 novembre, s'ingannano. Il 18 novembre 1935 è ormai una data che segna l'inizio di una nuova fase della storia italiana. Il 18 novembre reca in sé qualche cosa di definitivo, vorrei dire di irreparabile. La nuova fase della storia italiana sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione. Nessuna Nazione del mondo può realizzare sul proprio territorio l'ideale dell'autonomia economica in senso assoluto, cioè al 100 per 100, e se anche lo potesse, non sarebbe probabilmente utile. Ma ogni Nazione cerca di liberarsi nella misura più larga dalle servitù economiche straniere. V'è un settore nel quale soprattutto si deve tendere a realizzare questa autonomia il settore della difesa nazionale. Quando questa autonomia manchi, ogni possibilità di difesa è compromessa. La politica sarà alla mercé delle prepotenze straniere, anche soltanto economiche; la guerra economica, la guerra invisibile - inaugurata da Ginevra contro l'Italia - finirebbe per aver ragione di un popolo anche se composto di eroi. Il tentativo di questi mesi è ammonitore al riguardo. Per vedere se e in quali limiti l'Italia può realizzare la sua autonomia economica nel settore della difesa nazionale, bisogna procedere all'inventario delle nostre risorse e stabilire inoltre quel che ci può dare la tecnica e la scienza. Per questo abbiamo creato e date le agevolazioni necessarie al Consiglio Nazionale delle Ricerche. Giova premettere altresì che in caso di guerra si sacrificano, in parte o al completo, i consumi civili. Cominciamo l'inventario dal lato più negativo: quello dei combustibili liquidi: le ricerche del petrolio nel territorio nazionale sono in corso, ma finora senza risultati apprezzabili: per sopperire al fabbisogno di combustibili liquidi contiamo - specie in tempo di guerra - sulla idrogenazione delle ligniti, sull'alcool proveniente dai prodotti agricoli, sulla distillazione delle rocce asfaltifere. Il patrimonio lignitifero italiano supera i 200 milioni di tonnellate. Quanto ai combustibili solidi non potremmo fare a meno - allo stato attuale della tecnica - di alcune qualità di carbone pregiato destinato a speciali consumi: per tutto il resto si impiegheranno i carboni nazionali: il liburnico, il sardo, l'aostano. L'Azienda Carboni Italiani ha già realizzato importanti progressi, la produzione è in grande aumento, con piena soddisfazione del consumo. Io calcolo che potremo, colle nostre risorse, più la elettrificazione delle ferrovie, più il controllo della combustione, sostituire in un certo lasso di tempo dal 40 al 50 per cento del carbone straniero. Passiamo ora ai minerali metallici ed altri. Abbiamo ferro sufficiente per il nostro fabbisogno di pace e di guerra. La vecchia Elba sembra inesauribile: il bacino di Cogne è valutato a molte decine di milioni di tonnellate di un minerale che dopo quello svedese è il più puro d'Europa: unico inconveniente, la quota di 2800 metri alla quale si trova, inconveniente, dico, non impedimento. Altre miniere di ferro sono quelle riattivate della Nurra e di Valdaspra. Aggiungendo al minerale di ferro le piriti, da questo lato possiamo stare tranquilli. Altri minerali che l'Italia possiede in grandi quantità sono: bauxite e leucite per l'alluminio, zinco, piombo, mercurio, zolfo, manganese. Stagno e nichelio esistono in Sardegna e in Piemonte. Non abbiamo rame in quantità degna di rilievo. Passando ad altre materie prime, non abbiamo sino ad oggi, ma avremo fra non molto, la cellulosa; non abbiamo gomma. È nel 1936 che si riprenderà la coltura del cotone. Manchiamo di semi oleosi. Nell'attesa della lana sintetica prodotta su scala industriale, la lana naturale non copre il nostro consumo. La deficienza di talune materie prime tessili non è tuttavia preoccupante; è questo il campo dove la scienza, la tecnica e l'ingegno degli italiani possono più largamente operare e stanno infatti operando. La ginestra, ad esempio, che cresce spontanea dovunque, era conosciuta da molti italiani, soltanto perché Leopardi vi dedicò una delle sue più patetiche poesie: oggi è una fibra tessile che può essere industrialmente sfruttata. 144 milioni di italiani avranno sempre gli indumenti necessari per coprirsi: la composizione di questi tessuti è - in questi tempi - una faccenda assolutamente trascurabile. La questione delle materie prime va dunque, una volta per tutte, posta non nei termini nei quali la poneva il liberalismo rinunciatario e rassegnato a una eterna inferiorità dell'Italia, riassumentesi nella frase oramai divenuta abusato luogo comune, che l'Italia è povera di materie prime. Deve dirsi invece: l'Italia non possiede talune materie prime, ed è questa una fondamentale ragione delle sue esigenze coloniali; l'Italia possiede in quantità sufficiente alcune materie prime; l'Italia è ricca di molte altre materie prime. Questa è l'esatta rappresentazione della realtà delle cose e questo spiega la nostra convinzione che l'Italia può e deve raggiungere il massimo livello utile di autonomia economica per il tempo di pace e soprattutto per il tempo di guerra. Tutta la economia italiana deve essere orientata verso questa suprema necessità: da essa dipende l'avvenire del popolo italiano. Arrivo ora ad un punto molto importante del mio discorso: a quello che chiamerò "il piano regolatore" della economia italiana nel prossimo tempo fascista. Questo piano è dominato da una premessa: l'ineluttabilità che la nazione sia chiamata al cimento bellico. Quando? Come? Nessuno può dire, ma la ruota del destino corre veloce. Se così non fosse, come si spiegherebbe la politica di colossali armamenti inaugurata da tutte le Nazioni? Questa drammatica eventualità deve guidare tutta la nostra azione. Nell'attuale periodo storico il fatto guerra è, insieme con la dottrina del Fascismo, un elemento determinante della posizione dello Stato di fronte all'economia della Nazione. Come dissi a Milano nell'ottobre del 1934, il Regime Fascista non intende statizzare o, peggio, funzionarizzare l'intera economia della Nazione; gli basta controllarla e disciplinarla attraverso le Corporazioni, la cui attività da me seguita è stata di grande rendimento e offre le condizioni di ulteriori metodici sviluppi. Le Corporazioni sono organi dello Stato, ma non organi semplicemente burocratici dello Stato. Vado all'analisi. Il fondamentale settore dell'agricoltura non è - nella sua struttura -suscettibile di notevoli cambiamenti. Nessuna innovazione sostanziale alle forme tradizionali dell'economia agricola italiana. Esse rispondono bene allo scopo, che è quello di assicurare il fabbisogno alimentare del popolo italiano e fornire talune materie prime alle industrie. L'economia agricola resta quindi una economia a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato perché raggiunga medie sempre più alte di produzione e armonizzata attraverso le Corporazioni con tutto il resto dell'economia nazionale. V'è da affrontare e risolvere il problema dell'avventiziato agricolo o bracciantato, su linee che il Fascismo ha già tracciato. Quanto all'attività commerciale, bisogna distinguerne i due aspetti: quello esterno che è diventato funzione diretta o indiretta dello Stato e nient'affatto contingente come qualcuno potrebbe credere, e quello interno che - ottenuto l'autodisciplinamento delle categorie - non cambierà di molto la sua fisionomia. Il campo del commercio resta affidato all'attività individuale o dei gruppi o delle cooperative. Per quanto riguarda il settore del credito che sta all'economia come il sangue all'organismo umano i recenti provvedimenti lo hanno logicamente portato sotto il controllo diretto dello Stato. Questo settore è per mille ragioni di assoluta pertinenza dello Stato. Passando alla produzione artigiana e industriale dichiaro che l'artigianato sarà aiutato: esso, specie in Italia, è insostituibile. Non è solo per omaggio a una gloriosa tradizione che lo difendiamo, ma per la sua utilità presente. Piccola e media industria rimarranno nell'ambito della iniziativa e della responsabilità individuale armonizzata in senso nazionale e sociale dall'autodisciplina corporativa. Quanto alla grande industria che lavora direttamente o indirettamente per la difesa della Nazione e ha formato i suoi capitali colle sottoscrizioni azionarie, e per l'altra industria sviluppatasi sino a diventare capitalistica o supercapitalistica, il che pone dei problemi non più di ordine economico ma sociale, essa sarà costituita in grandi unità corrispondenti a quelle che si chiamano le industrie chiavi e assumerà un carattere speciale nell'orbita dello Stato. L'operazione in Italia sarà facilitata dal fatto che lo Stato già possiede attraverso l'I.R.I. forti aliquote e talora la maggioranza del capitale azionario dei principali gruppi di industrie che interessano la difesa della Nazione. L'intervento statale in queste grandi unità industriali sarà diretto o indiretto? Assumerà la forma della gestione o del controllo? In taluni rami potrà essere gestione diretta, in altri indiretta, in altri un efficiente controllo. Si può anche pensare ad imprese miste, nelle quali Stato e privati formano il Capitale e organizzano la gestione in comune. È perfettamente logico che nello Stato fascista questi gruppi di industrie cessino di avere anche "de jute" quella fisionomia di imprese a carattere privato che "de facto" hanno, dal 1930-31, del tutto perduto. Queste industrie - e per il loro carattere e per il loro volume e per la loro importanza decisiva ai fini della guerra - esorbitano dai confini della economia privata per entrare nel campo della economia statale e parastatale. La produzione che esse forniscono ha un unico compratore: lo Stato. Andiamo verso un periodo durante il quale queste industrie non avranno né tempo né possibilità di lavorare per il consumo privato, ma dovranno lavorare esclusivamente o quasi per le forze armate della Nazione. V'è anche una ragione di ordine squisitamente morale che ispira le nostre considerazioni: il Regime Fascista non ammette che individui e società traggano profitto da quell'evento che impone i più severi sacrifici alla Nazione. Il triste fenomeno del pescecanismo non si verificherà più in Italia. Questa trasformazione costituzionale di un vasto importante settore della nostra economia, sarà fatta senza precipitazioni, con calma, ma con decisione fascista. Vi ho così tracciato su grandi linee quello che sarà domani il panorama della Nazione dal punto di vista dell'economia. Come vedete, l'economia corporativa è multiforme e armonica. Il Fascismo non ha mai pensato di ridurla tutta ad un massimo comune denominatore statale: di trasformare cioè in "monopolio di Stato" tutta l'economia della Nazione: le Corporazioni la disciplinano e lo Stato non la riassume se non nel settore che interessa la sua difesa, cioè l'esistenza e la sicurezza della Patria. In questa economia dagli aspetti necessariamente vari come è varia l'economia di ogni Nazione ad alto sviluppo civile, i lavoratori diventano - con pari diritti e pari doveri - collaboratori nell'impresa allo stesso titolo dei fornitori di capitale o dei dirigenti tecnici. Nel tempo fascista il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura l'utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi. Una economia come quella di cui vi ho tracciato le linee maestre, deve poter garantire tranquillità, benessere, elevazione materiale e morale alle masse innumeri che compongono la Nazione e che hanno dimostrato in questi tempi il loro alto grado di coscienza nazionale e la loro totalitaria adesione al Regime. Devono raccorciarsi, e si raccorceranno nel sistema fascista, le distanze fra le diverse categorie di produttori, i quali riconosceranno le gerarchie del più alto dovere e della più dura responsabilità. Si realizzerà nell'economia fascista quella più alta giustizia sociale che dal tempo dei tempi è l'anelito delle moltitudini in lotta aspra e quotidiana con le più elementari necessità della vita. È la seconda volta che si riunisce sul Campidoglio l'Assemblea Nazionale delle Corporazioni. Qualcuno ha la legittima curiosità di domandare: che cosa accadrà di questa Assemblea? Qual è il posto ch'essa prenderà nell'economia costituzionale dello Stato italiano? A questi interrogativi fu già data una risposta e precisamente nel mio discorso del 14 novembre 1933, Anno XI, al quale vi rimando e nel quale annunciavo che il Consiglio Nazionale delle Corporazioni poteva benissimo sostituire e avrebbe finito per sostituire "in toto" la Camera dei Deputati. Confermo, oggi, questo intendimento. La Camera già promiscua nella sua composizione perché parte dei suoi membri sono anche membri di questa Assemblea, cederà il posto all'Assemblea Nazionale delle Corporazioni che si costituirà in "Camera dei Fasci e delle Corporazioni" e risulterà in un primo tempo dal complesso delle 22 Corporazioni. I modi coi quali la nuova Assemblea rappresentativa e legislativa si formerà, le norme per il suo funzionamento, le sue attribuzioni, le sue prerogative, il suo carattere costituiscono problemi di ordine dottrinale, e anche tecnico, che saranno esaminati dall'organo supremo del Regime: il Gran Consiglio. Quest'Assemblea sarà assolutamente "politica" poiché quasi tutti i problemi dell'economia non si risolvono se non portandoli sul piano politico. D'altra parte le forze che si potrebbero, forse un poco arbitrariamente, chiamare extra economiche, saranno rappresentate dal Partito e dalle Associazioni riconosciute. Ora mi domanderete quando questa profonda, ma già matura, trasformazione costituzionale si verificherà e io vi rispondo che la data non è lontana, pure essendo legata all'epilogo vittorioso della guerra africana e agli avvenimenti della politica europea. Colle trasformazioni economiche di cui vi ho parlato e con questa innovazione sul terreno politico-costituzionale, la Rivoluzione Fascista realizza in pieno i suoi postulati fondamentali, che l'adunata di Piazza San Sepolcro, 17 anni or sono, acclamò. Sicuro entro le sue frontiere, grazie alla mole dei suoi armamenti e allo spirito dei suoi combattenti; munito di strumenti politici e sociali sempre più adeguati alle condizioni della sua vita e all'evoluzione dei tempi, e in anticipo su tutti i paesi del mondo, il popolo italiano ha oggi dischiuse - grazie al Fascismo -le vie di una sempre crescente potenza. L'assedio societario ha collaudato la tempra della stirpe e come non mai l'unità delle anime. Il sacrificio affrontato dal popolo italiano in Africa è un immenso servigio reso alla civiltà e alla pace del mondo e anche a quelle vecchia troppo sazie potenze coloniali che hanno commesso l'incredibile errore storico di ostacolarci. L'Italia, in Africa, conquista dei territori, ma per liberare le popolazioni che da millenni sono in balìa di pochi capi sanguinari e rapaci. Lo slancio vitale del popolo italiano non fu e non sarà fermato dalle reti proceduristiche di un patto che invece della pace reca all'umanità le prospettive di guerra sempre più vaste: trenta secoli di storia, e quale storia!, la volontà indomita delle generazioni che si avvicendano e salgono, la capacità di sacrificio più alto, quello del sangue, dimostrata tre volte in questo primo periodo di secolo, sono elementi sufficienti per alimentare la nostra fede e aprirci le porte dell'avvenire.

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