Edmondo
Rossoni
Trisingallo 1884 - Roma 1965
Edmondo Rossoni nacque a Trisingallo nel 1884. Dopo aver frequentato
il ginnasio s'iscrisse al Partito socialista e partecipò
attivamente agli scioperi agrari del 1903-1904. Nel novembre del
1904 si trasferì a Milano dove, due anni dopo, fu eletto
membro del gruppo di propaganda sindacalista della Federazione
milanese, s'impegnò in battaglie antimilitariste e diventò
corrispondente della "Gioventù socialista". Nel
1907, in linea con gli indirizzi del sindacalismo rivoluzionario,
abbandonò la Federazione per impegnarsi a tempo pieno nelle
organizzazioni della Camera del lavoro. Nel novembre sostituì
a Piacenza il Commissario amministrativo della Camera del lavoro
locale e nei mesi successivi tenne una lunga serie di comizi che,
a causa dei toni accesi e dei contenuti violenti, gli valsero,
il 16 giugno 1908, una condanna a quattro anni di reclusione e
a due di sorveglianza speciale. Per sfuggire alla pena Rossoni
si trasferì prima a Nizza, dove fu diffidato, e poi in
Brasile dove riuscì a trovare lavoro, grazie ad Alceste
de Ambris, presso il giornale "Il Fanfulla". Partito
dalla Francia nel marzo soggiornò in Brasile solo pochi
mesi; espulso per attività sindacale si trasferì
a Parigi e quindi, nel luglio del 1910, a New York dove aderì
alla Federazione socialista italiana. Divenuto organizzatore della
Federazione, collaborò come redattore al giornale "Il
Proletario" e fu arrestato per istigazione allo sciopero.
Tornato in Italia, nel gennaio del 1913 fu nominato segretario
del sindacato provinciale Edile di Modena e diresse uno sciopero
durato settanta giorni che finì con la sconfitta delle
maestranze. Il fallimento dello sciopero edile e il timore di
un nuovo arresto lo indussero nuovamente alla fuga. Fece quindi
ritornò a New York dove assunse la direzione de "Il
Proletario". Con l'inizio della Grande guerra, come altri
sindacalisti rivoluzionari, assunse posizioni interventiste; abbandonò
quindi "Il Proletario", fedele alla linea neutralista,
per andare a dirigere la "Tribuna", giornale d'ispirazione
nazionalista. Richiamato alle armi rientrò in Italia e
nel 1918 fondò e diresse il settimanale "L'Italia
nostra", organo dell'Unione sindacale milanese. Successivamente
partecipò alla costituzione dell'Unione Italiana del Lavoro,
della quale rimase segretario fino al marzo del 1919 quando lasciò
l'incarico per prendere la direzione della Camera del lavoro di
Roma. Nel giugno del 1921, fu chiamato a dirigere la Camera del
lavoro di Ferrara e il 10 febbraio del 1922 fu nominato segretario
generale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali,
i nuovi sindacati fascisti costituitisi con il convegno di Bologna
nel gennaio precedente. Assunse anche la direzione de "Il
lavoro d'Italia", giornale della nuova Confederazione, e
promosse l'idea di un sindacalismo integrale, vale a dire la fusione
in un unico organismo sia dei sindacati operai sia di quelli padronali.
Fallito tale obiettivo, cercò di ottenere per le Corporazioni
il monopolio della rappresentanza sindacale del mondo operaio;
una posizione che lo portò a scontrarsi con la "Commissione
dei diciotto", istituita dal regime con il compito di studiare
le problematiche politiche e sociali. Nonostante le difficoltà,
il monopolio sindacale fu realizzato il 2 ottobre del 1925, grazie
agli accordi di Palazzo Vidoni. Da quel momento la posizione di
Rossoni e delle Corporazioni, per via del potere che detenevano,
fu guardata dai vertici del fascismo con sospetto. Questo spinse
il regime, che voleva creare un'unica Confederazione per gli artisti
e gli intellettuali, a realizzare un sistema corporativo, atto
ad indebolire il movimento sindacale separando la Confederazione
fascista in sei sindacati autonomi, cui corrispondevano altrettante
organizzazioni padronali. Dopo lo "sbloccamento" del
1928, accettato da Rossoni senza alcuna polemica, il leader sindacale
si trovò sempre più isolato e ormai privo di qualsiasi
potere reale. Nel settembre del 1930, ritornato nelle grazie del
regime, fu nominato membro del Gran Consiglio e due anni dopo
rivestì la carica di sottosegretario alla presidenza del
Consiglio. Nel marzo del 1935 fu nominato ministro dell'Agricoltura
e foreste, carica che mantenne fino al 1939. Il 25 luglio del
1943 votò a favore dell'ordine Grandi, atto che gli costò
la condanna a morte decretata dal Tribunale di Verona. Rifugiatosi
dapprima in Vaticano, dopo la condanna all'ergastolo inflittagli
nel maggio 1945, riparò in Canada dove rimase un solo anno.
Amnistiato fece ritorno in Italia e si ritirò a vita privata.
Morì a Roma l'8 giugno 1965.
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