Adesso
tutti furono concordi nel rivolgere lo sguardo verso il vecchio leader
politico, sicchè, già il giorno 11, Giovanni
Giolitti ricevette l'incarico di formare il nuovo Governo. Egli
accettò, e fu quindi in grado in pochi giorni di presentare
il nuovo Governo al Parlamento. Fecero parte dell'ultimo governo Giolitti:
il popolare Meda al Tesoro; Bonomi alla Guerra; Sforza agli Esteri;
Benedetto Croce alla Istruzione. Nel complesso, volendo giudicare
questo governo, apparve subito come posto più a destra di quello
nittiano, ciò a causa della perdurante opposizione socialista,
che rifiutava qualsiasi forma di collaborazione al governo. Il programma
del nuovo Governo fu il seguente: in politica estera il proseguimento
degli sforzi dei precedenti Governi, tendenti a risolvere la questione
adriatica e tendenti a creare uno stato di buon vicinato con tutti
i popoli confinanti; in politica interna rafforzamento del Parlamento,
con l'abbandono definitivo del malvezzo dei decreti-legge; modifica
dell'articolo 5 dello Statuto, per cui eventuali dichiarazioni di
guerra avrebbero dovuto essere autorizzate dal Parlamento; in politica
economica: nominatività dei titoli, tassazione progressiva
ed espropriazione dei profitti di guerra, aumento progressivo delle
tasse di successione, aumento delle tasse in generale. Scopo della
politica economica del governo: riuscire a frenare l'inflazione ormai
giunta a li-velli preoccupanti, quasi da bancarotta. Il Parlamento,
malgrado la situazione italiana richiedesse la massima celerità,
se la prese comoda, e soltanto il 9 luglio si ebbe il voto di fiducia
al Governo, che riuscì a passare con larga maggioranza. Frattanto
continuava a permanere nel Paese una situazione dell'ordine pubblico
molto difficile e tesa. Continuarono gli scioperi in varie città
italiane, mentre il fatto nuovo fu costituito dall'ammutinamento,
avvenuto ad Ancona, di reparti dell'esercito. Reparti di bersaglieri,
pronti per partire per l'Albania, si rifiutarono di muoversi, aggravando
la situazione di sedizione e di ammutinaiùento, che già
da tempo serpeggiava nell'esercito. La gravità della sedizione
militare consisteva appunto nella chiara dimostrazione che ormai il
Governo era nell'impossibilità di potere fare pieno e completo
affidamento sull'esercito, qualora le circostanze lo avessero richiesto.
Continuarono inoltre le plateali dichiarazioni rivoluzionarie dei
socialisti, ai quali facevano eco i discorsi dell'anarchico Malatesta,
che, profondamente convinto della "anarchia" quale unica
dignitosa forma politica, si schierò anche contro i consigli
degli operai e dei contadini, forma borghese antirivoluzionaria. I
ferrovieri avevano adesso presa l'abitudine di rifiutare il trasporto
della forza pubblica. Si giunse all'eccesso di pretendere il fermo
del treno fino a quando dallo stesso non fossero scesi tutti i militari,
che talvolta viaggiavano soltanto per usufruire di una semplice licenza.
Ciò umiliava profondamente i militari, che ritenevano giustamente
di avere diritto invece àlla riconoscenza della Patria, e che
invece venivano trattati come appestati. Giolitti agì con discrezione,
ma con fermezza al fine di eliminare questi abusi ed arbitri. In Albania
invece, dove le forze militari si erano ridotte al solo campo trincerato
di Valona, Giolitti decise di sgomberarla del tutto, tranne l'isolotto
di Saseno, che restava a garantire la neutralizzazione di Valona.
Venne quindi rapidamente raggiunto un accordo con l'Albania, della
quale si riconosceva l'indipendenza, che l'Italia s'impegnava ad appoggiare.
Mussolini su "Il Popolo d'Italia" tuonò contro lo
sgombero di Valona, soprattutto perchè l"abbandonammo
Valona dopo averla difesa per due mesi; l'abbandoniamo -scriveva Mussolini
- perchè non possiamo più tenerla; perchè il
capo del Governo italiano ha promesso di non mandare più rinforzi,
obbedendo al ricatto del pussismo esternamente anti-nazionalista e
anti-italiano. Prima dell'attacco degli insorti, noi avremmo, cedendo
Valona, potuto fare la figura degli idealisti (o dei fessi): adesso
facciamo la figura dei vinti che si rassegnano alla loro disfatta...
Poche migliaia d'insorti albanesi hanno buttato in mare una cosidetta
grande Potenza come l'Italia." Nella realtà dei fatti,
l'abbandono dell'Albania rientrava in un quadro politico di vasto
respiro. Giolitti infatti, d'accordo con il suo ministro per gli Esteri
Sforza, intendeva operare attraverso un ampio approfondimento, al
fine di ottenere con la Jugoslavia "giusti confini" e rapporti
di buon vicinato. E non soltanto la Jugoslavia, bensì tutti
i paesi nostri confinanti, avrebbero dovuto èssere cointeressati
in questo sistema di pacifica convivenza. Era molto più importante
per l'Italia - pensava Giolitti - ottenere giusti confini, piuttosto
che un lembo di territorio in più. Vennero quindi riprese,
con cautela e con il chiaro programma di giungere ad un notevole approfondimento
delle reciproche esigenze, le trattative, interrotte a Pallanza dalla
caduta del governo Nitti. Certamente la situazione dell'ordine pubblico
lungo tutto il confine orientale italiano, e particolarmente nell'Istria,
non era dei più rassicuranti. Fiume continuava ad essere occupata
da D'Annunzio, mentre gravi incidenti si verificarono a Spalato. L'
11 luglio gruppi di jugoslavi assalirono gli ufficiali di una nave
da guerra italiana, uccidendone il comandante. Il seguente giorno
13 a Trieste, le squadre d'azione fasciste assalirono l'Hotel Balkan,
quartier generale degli sloveni, incendiandolo. Assalirono quindi
anche l'abitazione del console di Jugoslavia, distrussero la redazione
del giornale sloveno "Edinost", esaurendo quindi la loro
azione punitiva, con assalti ad abitazioni di numerosi cittadini slavi,
abitanti a Trieste. Questa di Trieste fu la prima grande azione punitiva
delle squadre d'azione fasciste. Di lì a poco lo squadrismo
esploderà, diffondendosi in breve tempo in tutta la Valle Padana.
Nel luglio del 1920 una delegazione del Partito socialista, guidata
da Serrati, insieme ad una delegazione della Confederazione del lavoro,
si recò in Russia, sia per portare un piccolo aiuto ai compagni
russi, impegnati nella fase post-rivoluzionaria, sia per visitare
il loro "Paradiso". Nulla è peggio della idealizzazione
più o meno romantica della realtà: a contatto con essa,
spesso la delusione è cocente. La realtà russa era ben
diversa da quella che i compagni italiani avevano immaginato: ovunque
c'era grande miseria ed il bolscevismo non aveva certamente potuto
risolvere in breve tempo problemi, che richiedevano invece le energie
ed i mezzi di intere generazioni. La delusione degli italiani fu immensa,
e questi, rientrati in Italia, parlarono e raccontarono ciò
che avevano visto. Malgrado i gerarchi russi avessero fatto di tutto
per non far troppo notare lo stato di miseria del loro paese, questa
era troppa perchè potesse essere celata; sicchè gl'italiani
se ne accorsero e riferirono al loro ritorno in patria. Per i "rivoluzionari
socialisti" fu una vera doccia fredda; il loro Eden era soltanto
un mito; la bolscevizzazione della società non era stata in
grado di eliminare in breve tempo la miseria del paese, ch'essi s'erano
posti a modello. Ma malgrado tutto ciò, l'ala più estrema
del Partito socialista, continuava, tramite il suo esponente Bombacci,
poi divenuto in seguito fervente fascista, a predicare la rivoluzione.
Eppure lo stesso Lenin aveva chiarito la sua idea in proposito: la
rivoluzione in Italia era impossibile; perchè chi avrebbe aiutato
l'Italia? L'Italia non era la Russia, paese sconfinato, dalle immense
risorse. Era un piccolo paese che dipendeva per la sua stessa sopravvivenza
dal continuo aiuto, e dai rifornimenti delle potente occidentali,
e che avrebbe, qualora la rivoluzione ci fosse stata veramente, subìto
un tale brusco abbassamento del tenore di vita, per cui senz' altro
alla rivoluzione sarebbe seguita la reazione, tendente a restaurare
lo statu quo. Questo continuo stato di tensione pesudo-rivoluzionaria,
le continue angherie e sopraffazioni socialiste contro i piccoli borghesi,
contro i piccoli proprietari, contro i popolari, avevano frattanto
mutato lo stato d'animo dell'elettorato italiano. La prova di ciò
si ebbe alle elezioni amministrative, svoltesi nell'autunno del '20.
"Nelle elezioni amministrative.., i socialisti conquistarono
2.022 comuni (24,3 per cento); i popolari 1.613 (19,4 per cento);
e tutti gli altri partiti che avevano formato blocchi patriottici
o antibolscevichi 4.692 (56,3 per cento). In agosto gli operai metallurgici
chiesero notevoli aumenti salariali agli industriali, e minacciarono,
qualora fossero state disattese le loro richieste, di passare alla
tattica dell'ostruzionismo. Questa strana arma di lotta dei lavoratori,
che consisteva essenzialmente nell'applicare sino all'esagerazione
tutti i regolamenti, impedendo di fatto il normale svolgersi della
funzione produttiva dell'azienda, ebbe inizio effettivamente il 20
di agosto; ma presto la situazione precipitò. Essendosi infatti
gl'industriali lamentati per atti di violenza e di sabotaggio, svoltisi
all'interno degli stabilimenti, ed avendo gli industriali di conseguenza
deciso di procedere alla serrata delle fabbriche, i sindacati decisero
di passare alla controffensiva, occupando gli opifici e gli stabilimenti
industriali. Complessivamente nella sola Milano furono occupate 160
fabbriche di vario tipo; in breve il movimento si estese alle altre
città industriali d'italia: il primo settembre a Torino, eppoi
via via ad altre importanti località, sedi di notevoli insediamenti
industriali. Il tentativo, come già era successo per il passato,
intendeva proseguire sulla via dell'organizzazione diretta della produzione;
ma i rivoltosi spaventarono con i loro atteggiamenti rozzi i tecnici
ed i dirigenti, appartenenti tutti alla media borghesia, sicché
questi ultimi abbandonarono gli stabilimenti, rendendo in pratica
impossibile la realizzazione dell'esperimento di autogestione. Malgrado
l'isolamento nel quale il tentativo viveva, il sindacato non desistette,
e decise quindi di continuare l'occupazione delle fabbriche, difendendole
da eventuali tentativi di sgombero con guardie rosse e reticolati.
Si crearono inoltre, all'interno dei vari stabilmenti occupati, organi
vero e proprio governo, battenti moneta e con tribunali del popolo.
L'utopia insurrezionale continuava "Lo sbigottimento borghese
dovette assumere proporzioni veramente allarmanti... Ma la gestione
delle fabbriche abbandonata a se stessa, senza sostegno politico,
senza forniture, senza capitali e senza un correlativo controllo sulla
produzione agricola... non poteva che fallire nonostante l'ardore
dei capi e lo spirito rivoluzionario delle masse. Mancò, per
le cautele di Giolitti... anche il fatto clamoroso, cruento, capace
di rompere gl'indugi e di sollevare a rivoluzione il paese. I ceti
padronali si astennero per impotenza; il governo per calcolo; e gli
invasori delle fabbriche, privi di risorse e della collaborazione
dei tecnici... finirono per capitolare riprendendo il lavoro agli
ordini degli uomini di cui, per una ventina di giorni, ed anche meno,
avevano creduto di essersi definitivamente sbarazzati."
Giolitti si rese conto che contro un movimento così vasto egli
non poteva agire con la forza; e ciò per due ordini di motivi:
primo perché ci sarebbero stati morti e vittime e ciò
avrebbe potuto innescare sangui- nose reazioni, delle quali non era
possibile prevedere l'epilogo; in secondo luogo perché, se
il governo avesse deciso di impiegare la forza pubblica per sgombrare
le fabbriche, avrebbe necessariamente dovuto abbandonare le città
e le piazze, che aviebbero potuto diventare teatro di nuovi e più
gravi conflitti. Egli quindi, così come aveva fatto nel corso
dello sciopero generale del 1904, lasciò che le acque si calmassero
da sole, senza interventi violenti. Ai primi di settembre il Governo
ebbe contatti con rappresentanti sia degli operai che degl'industriali,
al fine di cercare di giungere ad un accordo, consentendo quindi la
fine dei gravi disordini. Il primo di ottobre si giunse ad un accordo
tra industriali e sindacati operai, secondo il quale era consentito,
attraverso i Consigli di fabbrica, un certo qual controllo dei rappresentanti
degli operai sulla politica produttiva dell'azienda. Malgrado sostanzialmente
i proletari nulla avessero guadagnato da questo vasto movimento di
occupazione delle fabbriche, tuttavia la borghesia andava acquisendo
la mentalità della categoria in pericolo: essa temeva che un
governo debole non fosse in grado di tutelare i suoi interessi, e
di conseguenza iniziò ad auspicare un "governo forte"
in grado di "mettere a posto i rossi" e di ridare disciplina
ad un paese, che sembrava aver perduta la "retta via". Frattanto
nell'ambito del Partito socialista si faceva sempre più profonda
la spaccatura fra moderati è massimalisti. La corrente socialista
di sinistra, tenuto un proprio convegno ad Imola, ribadì la
propria intransigenza rivoluzionaria e pubblicò un manifesto,
firmato tra gli altri da Bombacci, Bordiga, Gramsci e Terracini, in
cui si auspicavà finanche il cambiamento del nome socialista
in "comunista". Ci si avviava verso l'inevitabile scissione
comunista. Tutto ciò aveva creato quindi una profonda spaccatura
tra classe operaia e classe borghese. Gli uni sempre speranzosi di
giungere prima o poi alla rivoluzione, gli altri certi di aver sempre
dovuto cedere alle esorbitanti richieste del proletariato, per mancanza
di un governo forte. "Dopo il settembre del 1920 la classe operaia...
si perse d'animo. (Gli industriali), perfettamente organizzati fin
dal marzo nella Confindustria, impedirono che venisse attuata qualsiasi
misura concreta per l'isti-tuzione ufficiale dei Consigli di fabbrica.
Come dichiarò l'energico presidente della Confindustria, Gino
Olivetti, era in giuoco il problema vitale del potere nella fabbrica...
Nel settembre del 1920 gli industriali avevano visto sventolare le
bandiere rosse sulle loro fabbriche, ed ora erano ben decisi a vendicarsi".
Per altro questo sentimento di vendetta era provocato anche dall'atteggiamento
grossolano e spesso brutale, con tragici epiloghi delinquenziali,
tenuto dagli occupanti delle fabbriche. Nel corso, infatti, dell'occupazione
furono uccisi freddamente, soprattutto in Piemonte, diversi "nemici
del popolo". Tutto ciò scosse profondamente l'opinione
pubblica, che ebbe modo di rendersi conto di cosa volesse dire governo
della teppaglia ignorante ed irresponsabile. Tra gli uccisi ricorderemo
"il vice brigadiere Dore, il giovane Mario Sonzini, i miseri
secondini Santagata, Lombardi, Sirma e Crimi, furono presi e giustiziati,
quando uccisi a fucilate perché colti a passare, isolatamente,
davanti ai cancelli vigilati dalle guardie rosse. Tipico il caso Scimula:
"La sera del 22 settembre il picchetto operaio che montava la
guardia alla fabbrica Bevilacqua vide passare davanti ai cancelli
un individuo riconosciuto come un secondino delle carceri; fermato
e richiesto delle carte, rifiutò di mostrarle; venne allora
perquisito e trovato in possesso di una carta di identità dalla
quale risultavano il nome e la qulifica: Ernesto Scimula, guardia
alle Carceri Nuove. Tradotto al terzo piano davanti al tribunale,
di cui facevano parte anche alcune giovani donne, fu condannato ad
essere bruciato vivo nell'alto forno". E poiché la sentenza
risultava inesiguibile, essendo spenti gli alti forni, lo Scimula
fu ucciso a revolverate. L' "Avanti!" nei giorni successivi,
senza negare i fatti, si appellava alla giustizia di classe."
Mussolini dapprima cercò di strumentalizzare a suo favore la
lotta operaia, che aveva dato luogo alla occupazione delle fabbriche.
Tuttavia, fallito il suo tentativo. di ap-profittare dell'occasione
a scopo personale, e guardò, attraverso i suoi articoli su
"Il Popolo d'Italia", con simpatia i moti operai di occupazione
delle fabbriche. Tutto ciò che turbava l'ordine pubblico, giustamente
egli pensava, tornava comodo alla sua politica. In politica estera
il Governo Giolitti riprese quei contatti con la Jugoslavia, che iniziati
da Nitti, erano stati interrotti dalla caduta del governo. Adesso
l.e posizioni italiane e jugoslave si andarono sempre più avvicinando.
Per altro Wilson non era più in grado di proteggere adeguatamente
i suoi alleati slavi; contemporaneamente Francia e Gran Bretagna esercitarono
notevoli pressioni sul governo di Belgrado per indurlo ad accettare,
almeno nelle linee fondamentali, le richieste italiane. A tutto questo
si aggiunsero gli sforzi costanti ed intelligenti del ministro per
gli Esteri Sforza, che riuscì alla fine a spuntare concessioni
dagli jugoslavi di tale entità che gli stessi nazionalisti
e gli stessi fascisti dovettero definire come ottimo il trattato che
si andava delineando tra i due paesi. Le trattative furono lunghe,
ma alla fine si giunse ad un accordo definitivo tra governo italiano
e governo jugoslavo. Il trattato di Rapallo, firmato il 12 no-vembre
del 1920, dal ministro Sforza per l'Italia e da Trumbic per la Jugoslavia,
vide i due paesi impegnarsi alla esecuzione delle clausole del Trattato
di Versailles e del Trianon "e a prendere tutte le misure atte
a impedire il ritorno degli Absburgo in Austria. (In quel periodo
vi erano stati almeno due tentativi dell'imperatore Carlo di restaurare
la monarchia asburgica a Vienna) All'Italia veniva riconosciuto tutto
il confine alpino della Venezia Giulia fino al mònte Nevoso,
mentre la Jugoslavia otteneva in compenso la parte della Dalmazia
attribuita all'Italia dal Trattato di Londra del 26/5/1915, eccettuate
le città di Zara e le isole Lagosta, Pelagosa, Cherso e Lussino.
Inoltre la Jugoslavia riconobbe la piena indipendenza dello stato
di Fiume".
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Giovanni Giolitti
nuovo
Presidente del consiglio
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