IL GOVERNO BONOMI

Alla caduta del governo Giolitti, furono indicati al re, nel corso delle consultazioni parlamentari per risolvere la crisi, i nomi di due deputati: Enrico De Nicola, insigne giurista napoletano di orientamento liberal-democratico, ed Ivanoe Bonomi di orientamento social-riformista e che già aveva fatto parte del dimissionario governo Giolitti. De Nicola, al quale andavano le maggiori simpatie dei partiti, rinunciò all'incarico, spaventato dalle gravi responsabilità e conscio delle difficoltà ardue, che si presentavano per un governo, che volesse governare in un parlamento, privo di chiare maggioranze precostituite. L'incarico fu quindi affidato a Bonomi, che accettò, e che già il 4 luglio riuscì a formare un nuovo governo del quale fecero parte: della Torretta agli Esteri; Bonomi stesso agli Interni; Soleri alle Finanze; De Nava al Tesoro; Rodinò alla Giustizia. Si trattò quindi di un governo, formato da uomini di estrazione eterogenea, di diversa ispirazione ed ideologia: socialriformisti, popolari, democratico-sociali e uomini di destra, i quali però parteciparono al governo a titolo personale. L'Italia continuava frattanto ad essere insanguinata dalla lotta armata fra gli opposti schieramenti socialisti e fascisti. Il problema dell'ordine pubblico imponeva una soluzione in modo prioritario. Mussolini nel suo primo discorso alla Camera aveva avanzata la proposta di un patto di pacificazione, che ponesse termine alla guerra civile in atto fra gli opposti schieramenti. I suoi tentativi di giungere ad "una tregua d'armi" con i "rossi si fecero ancora più evidenti dopo i fatti di Sarzana. Il 21luglio una numerosa squadra fascista si era avviata alla volta di Sarzana, con lo scopo di liberare dal carcere di quella città, alcuni "camerati", che vi erano trattenuti in stato di detenzione: fra questi faceva particolare spicco Renato Ricci, uno dei più violenti squadristi fascisti. Ma, contrariamente a quanto da tempo ormai avveniva, stavolta la squadra fascista trovò a difendere il carcere i carabinieri, che aprirono il fuoco contro i fascisti, uccidendone tre e ferendone altri. I restanti componenti della squadra sì sbandarono, fuggendo quindi nella campagna; ma lì trovarono ad attenderli socialisti e comunisti, che approfittarono dell'occasione per inseguirli, dando loro la caccia: al termine della giornara si erano avuti da parte fascista 18 morti e 30 feriti. Era la prima volta che i fascisti si scontravano con la forza pubblica, dimostrando chiaramente, che senza la connivenza dei "tutori dell'ordine", essi non avrebbero potuto portare a compimento con tanta facilità le loro spedizioni punitive. Il fatto impressionò l'opinione pubblica e lo stesso Mussolini, il quale temette che l'atteggiamento di aperta connivenza della forza pubblica fosse mutato e quindi si affrettò a cercare una via di conciliazione ed un "modus vivendi" con i suoi avversari politici. Intanto erano iniziati i contatti fra esponenti fascisti ed esponenti socialisti per giungere alla pacificazione. Acerbo e Giuriati per i fascisti, Zaniboni ed Ellero per i socialisti, s'incontrarono a più riprese alla ricerca di un compromesso di pacificazione. Assunse ruolo d'intermediario l'on. Enrico De Nicola, al quale le parti si erano rivolte per l'arbitrato. Il 3 agosto 1921, arbitro l'on. De Nicola, presidente della Camera, fu firmato il patto di conciliazione fra fascisti e socialisti. Tuttavia il patto rimase soltanto sulla carta; esso non venne rispettato né dai fascisti, in preda ad una vera e propria crisi interna, che portava all'indisciplina del movimento, né dai socialisti, i quali assunsero di essere stati provocati e di avere dovuto agire per difendersi. I comunisti dal loro canto non avevano sottoscritto il patto, né vollero partecipare alle trattative, mentre i popolari vi parteciparono in veste di invitati, astenendosi da un diretto intervento, temendo di restare coinvolti anch'essi nelle lotte delle opposte fazioni. Sembrava quasi che la guerra civile, ormai in atto nel Paese, non interessasse tutti, ma soltanto una parte dei cittadini; di conseguenza tutti gli altri potevano astenersi da qualsiasi atto, in attesa che la lotta in qualche modo finisse. Fu l'ignavia che consentì ai fascisti alla fine di trionfare. Tutto sommato i più coerenti con la situazione furono i comunisti, ai quali "parlare di pace sembrava pura ipocrisia. Per loro iniziativa in quel torno di tempo erano apparsi, anzitutto a Roma, i cosiddetti arditi del popolo, i quali, organizzati dal deputato comunista Mingrino, imitavano i metodi delle squadre fasciste. Mussolini ne fu impressionato, e temette che l'iniziativa potesse avere un seguito, con le conseguenze facilmente immaginabili per il suo movimento, che sarebbe rimasto schiacciato dall'enorma massa dei suoi oppositori. Invano Mussolini cercò di convincere il suo movimento a rispettare il patto di pacificazione; l'indisciplina serpeggiava anche nella direzione del fascismo e non consentiva di svolgere un'azione unica a carattere nazionale. Il 16 agosto, a Bologna, i dirigenti del fascismo emiliano e romagnolo, respinsero il patto, ritenendolo dannoso per il fascismo. Mussolini allora, il seguente giorno 17, si dimise da membro del Comitato centrale dei Fasci. Egli non intendeva essere il capo di uomini, che invece di seguire le sue direttive, agivano di testa loro. Aggiungeva inoltre che era impensabile che i fascisti avessero la presunzione di lottare e di sterminare due milioni di socialisti, sicché occorreva cercare altre vie, che non fossero quelle della lotta armata. Comunque le sue dimissioni furono respinte, aùche se doveva essere chiaro a Mussolini ch'egli era si, il capo del Fascismo, ma non il padrone del movimento. Mussolini dovette allora rendersi conto della necessità di agire in seno al suo movimento, e trasformarlo in partito, con dei regolamenti ben precisi che potessero imbrigliare lo squadrismo, che adesso minacciava di distruggere quanto sino ad allora faticosamente conquistato. A tutto ciò era da aggiungere l'atteggiamento sempre più deciso delle forze di polizia contro i fascisti: così ad esempio a Modena, il 26 settembre, quando una formazione di circa un migliaio di fascisti tentò di entrare in città per una spedizione punitiva, trovò ad attenderli la Guardia regia, che aprì il fuoco contro di essi, uccidendo otto fascisti e ferendone una trentina. S'imponeva quindi una scelta definitiva:le bande armate dovevano cedere il passo alla direzione politica del movimento, che doveva diventare partito: nasceva così il Partito Nazionale Fascista.





Re Vittorio Emanuele III a
colloquio con Bonomi




Zaniboni e Acerbo autori della
pace tra socialisti e fascisti




Il Marchese della Torretta
ministrio degli esteri




La squadra d'azione fascista
" La Disperata"


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