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Aprile 1945: L'ultima intervista a Benito Mussolini
E' risaputo che, quando fu arrestato a Dongo, Mussolini aveva
presso di sé una grossa busta di cuoio contenente preziosi
documenti. Essi erano tali da interessare la storia degli ultimi
anni. Ma - almeno fino a questo momento - la storia gli ignora.
Forse debbono considerarsi perduti, perché quella busta
scomparve, né risulta sia stata mai ritrovata. Fino a
quando non sia stato rinvenuto (ma lo sarà mai?) il carteggio
personale e riservatissimo che Mussolini portava con sé
e che dovette abbandonare - non si sa dove, né come -
dopo il suo arresto sulla riva occidentale del lago di Corno;
fino a quel giorno avranno un acuto interesse e un valore documentario
eccezionale le parole, gli scritti, le dichiarazioni, le confessioni,
che egli fece, dettò, espose, o fornì verbalmente
nell'ultima decade della sua esistenza e, particolarmente, fra
il 20 aprile del 1945 e quel drammatico 28 aprile del 1945,
in cui lui e Claretta Petacci vennero uccisi. Mussolini aveva
molte cose da dire. I giornali, i testimoni, le numerose interviste
con partigiani del tempo, sono concordi nel riferire ciò
che il Capo della Repubblica Sociale avrebbe detto ai suoi carcerieri:
"Voglio parlare un'ultima volta al mondo, prima di morire.
Sono stato tradito nove volte. La decima, sono stato tradito
dai tedeschi".E' noto che egli non ebbe modo di parlare
come desiderava e voleva. Quali pensieri gli facevano invocare
quest'ultimo colloquio con gli uomini? Li ignoravamo fino a
ieri. Oggi non più. E non perché siano stati ritrovati
documenti che Mussolini portava con sé nella famosa busta
di cuoio prima dell'arresto; ma perché è venuto
alla luce quello che si può a giusto titolo chiamare
il testamento di Mussolini. Nessun dubbio, a tale proposito.
Le sue ultime parole non solo vennero scritte sotto la sua dettatura;
ma Mussolini stesso, due giorni dopo la definitiva stesura delle
cartelle dattiloscritte, volle rivederle, volle personalmente
correggerle; e, infine, volle siglare tutto il dattiloscritto
con la sua ben conosciuta inconfondibile M. Ci si chiederà:
"Come mai questo documento così importante, questa
testimonianza così vitale, salta fuori soltanto adesso?"
Domanda più che naturale; ma la risposta è quanto
mai semplice: perché l'estensore manuale di quelle dichiarazioni,
che furono a lui dettate, il fortuito raccoglitore delle idee,
della volontà, dell'estrema disperata difesa di Mussolini
si era impegnato a non rendere noto il contenuto di quelle carte
se non tre anni dopo la morte di Mussolini stesso.
E questo - come si vedrà - per esplicita volontà
di Mussolini.
Ecco perché solo ora, trascorsi i tre anni da quel tragico
28 aprile 1945, il depositario degli ultimi pensieri di Mussolini
si è fatto vivo, ritenendosi giustamente sciolto dall'obbligo
del silenzio. Il documento ha la forma di una intervista; intervista
che Mussolini concesse nel suo studio presso la Prefettura di
Milano a Gian Gaetano Cabella, direttore del "Popolo di
Alessandria", nel pomeriggio del 20 aprile 1945 e che,
come si è detto, rivede attentamente il giorno 22 aprile,
cioè sei giorni prima della morte. Superfluo rilevare
che questa non è una intervista delle solite. Si tratta
di dichiarazioni assolutamente eccezionali, fatte nel momento
in cui Mussolini aveva la coscienza del crollo e della sua stessa
fine imminente. Egli stesso, del resto come si vedrà,
definì questa intervista un testamento. Quando il giornalista
di sua fiducia gliela riportò il 22 aprile, gli avvenimenti
già precipitavano con un ritmo che non consentiva più
illusioni. Gli angloamericani si erano avvicinati vittoriosi
alla linea del Po. Ogni speranza in una qualsiasi resistenza
svaniva, tanto per l'esercito tedesco, quanto per i fascisti.
Nell'ampia cerchia limitata dall'arco alpino, già echeggiava
il sinistro: "Si salvi chi può". Perciò
Mussolini ebbe la visione, forse ancora nebulosa, ma non per
questo meno drammatica, della prossima fine. E ciò spiega
la consegna impartita al fedele dell'ultima ora: "Se io
muoio, non dovete divulgare quanto rimetto nelle vostre mani
se non quando saranno passati tre anni dalla mia morte".
L'importanza storica e umana del documento è eccezionale.
E' un estremo appello alla posterità quello che Benito
Mussolini dettò il giorno 20 e corresse il 22 aprile
1945 nella saletta della Prefettura di Milano.
" Fu il ministro Zerbino che il 19 aprile mi comunicò
l'invito. Mussolini mi avrebbe ricevuto all'indomani, in Prefettura.
Feci subito rilegare i numeri del giornale: tutta la edizione
milanese dal settembre 1944 fino all'ultimo numero, uscito con
la data del 21 aprile 1945. Volevo offrire al Duce l'intera
collezione, insieme coi prospetti e i grafici della tiratura,
del "Popolo", che, da 18 mila copie stampate e 16
vendute nel primo anno di vita, era ora asceso a 270 mila copie
tirate e vendute, senza contare i numeri speciali, che avevano
ottenuto un successo anche maggiore. Le richieste, negli ultimi
tempi, superavano la tiratura. Molti camerati mi consegnarono
scritti e messaggi da presentare al Duce. Divisi queste carte
in tre gruppi: 1°) quelle che gli avrei dato in ogni caso;
2°) quelle meno importanti; 3°) quelle che avrei consegnato
solamente se il colloquio si fosse svolto in modo particolarmente
favorevole. Preparai anche una breve relazione delle lunghe
trattative che avevo condotto con elementi partigiani, i quali,
in un primo tempo, mi avevano scritto invitandomi a prendere
contatto con alcuni loro rappresentanti. Avevo accettato senz'altro
questo abboccamento che avvenne il 7 febbraio a Rondissone,
vicino a Torino: incontro interessante sotto molti rapporti
e che permise utili intese nell'interesse superiore del Paese.
Alle 14.30 del 20 aprile ero in Prefettura. Nella prima sala
d'aspetto passeggiavano e discorrevano ufficiali e gerarchi.
Il Prefetto, capo della Segreteria particolare, attraversava
spesso la sala che divideva lo studio di Mussolini dal suo ufficio.
Nel secondo salone c'erano il colonnello Colombo, comandante
della "Muti" con il vice comandante e altri. Alle
15 giunsero il comandante Borghese accompagnato da alcuni ufficiali,
e il Capo di Stato Maggiore della GNR. Il ministro Fernando
Mezzasoma parlava con un gruppo di giornalisti, fra i quali
ricordo Daquanno, Amicucci, Guglielmotti. Si unì al gruppo,
poco dopo, anche Vittorio Mussolini. Un'apparente serenità
regnava fra quelle persone e, specialmente nella prima sala,
c'era il più discreto silenzio. Un ufficiale delle SS
germaniche passeggiava fumando. Il servizio di guardia era limitato
al portone d'ingresso del Palazzo del Governo e a due sentinelle
armate (una SS tedesca e un milite della Guardia) alla postierla
della scaletta che dal cortile conduceva all'appartamento occupato
dal Duce e dai membri del governo. Alle 15.20 giunse il Questore,
che parlò col Prefetto Bassi. Poco dopo uscì dallo
studio del Duce il personaggio che vi stava già da venti
minuti; ma non ricordo chi fosse. Forse Pellegrini. Entrò
un usciere, che chiuse la porta dietro di sé; ma non
tanto velocemente da impedirmi di scorgere Mussolini seduto
dietro una piccola scrivania. Nel frattempo, mi aveva raggiunto
il mio redattore capo, già direttore di "Leonessa",
settimanale della Federazione bresciana: il sottotenente dei
bersaglieri Galileo Lucarini Simonetti. Finalmente, la porta
del Duce si aprì. L'usciere disse forte il mio nome.
Mi precipitai dentro. Deposti i pacchi sopra una sedia alla
mia destra, salutai sull'attenti. Mussolini mi accolse con un
sorriso. Si alzò e mi venne vicino. Subito osservai che
Mussolini stava benissimo in salute, contrariamente alle voci
che correvano. Stava infinitamente meglio dell'ultima volta
che l'avevo visto. Fu nel dicembre del 1944, in occasione del
suo discorso al Lirico. Le volte precedenti che mi aveva ricevuto
- nel febbraio, nel marzo e nell'agosto del '44 - non mi era
mai apparso così florido come ora. Il colorito appariva
sano e abbronzato; gli occhi vivaci, svelti i suoi movimenti.
Era anche leggermente ingrassato. Per lo meno, era scomparsa
quella magrezza, che mi aveva tanto colpito nel febbraio dell'anno
avanti e che dava al suo volto un aspetto scarno, quasi emaciato.
Quel ricordo, dinanzi ad un uomo ora tanto diverso, si dileguò
immediatamente dalla mia memoria. Egli indossava una divisa
grigio-verde senza decorazioni, né gradi. Lasciò
i grossi occhiali sul tavolo, sopra un foglio pieno di appunti
a matita azzurra. Notai che il tavolo era piccolo: molti fascicoli
erano stati collocati sopra un tavolino vicino. Alcuni giacevano
perfino in terra, presso la finestra. M'è rimasta l'impressione
visiva che sulla scrivania, in un vaso di cristallo, ci fosse
una rosa rossa; ma non potrei garantire l'esattezza di questo
particolare. Sopra una sedia, scorsi tre borse porta documenti:
due in cuoio grasso, una di pelle giallo scura. Mussolini mi
posò la destra sulla spalla e mi chiese: "Cosa mi
portate di bello?". Queste le prime parole, che già
mi aveva dette quattordici mesi prima, benché con altro
tono: un tono più lento, con voce più bassa e
stanca. Non seppi rispondere lì per lì. Come al
solito, e come succedeva a molti davanti a lui, mi sentii alquanto
disorientato e dopo una breve esitazione risposi che ero felice
di vederlo, e che gli portavo la raccolta del giornale. Mi batté
la mano sulla spalla. Fissandomi, mi disse: "Vi elogio
per quanto avete fatto per il consolidamento della Repubblica
Sociale. Pavolini mi ha riferito del vostro discorso a Torino
per il 23 marzo e del successo che avete ottenuto. Non vi sapevo
anche oratore". Gli offersi la raccolta del giornate e
gli mostrai i grafici della diffusione, della vendita, delle
lettere ricevute. Gli consegnai diversi scritti di fascisti,
di combattenti, di giovanissimi. Mi fu largo di elogi, specialmente
per i tre numeri speciali, ricchi di illustrazioni, dedicati
a "Stellassa" (Umberto di Savoia), a "Pupullo"
(Badoglio) e a "Bazzetta" (Vittorio Emanuele III).
Sfogliò la raccolta, soffermandosi su alcuni numeri.
Rise. "I tre numeri illustrati per "Bazzetta",
" Pupullo" e "Stellassa" sono fatti veramente
bene. Mi hanno divertito. Che tiratura hanno avuto?". "
Duecentosettantamila copie vendute. Per mancanza di carta non
ho potuto far fronte alle trecentottantamila richieste...".
"Avrete la carta che vi occorre...". Prese la matita
e, stando in piedi, tracciò qualche nota su un foglio
di appunti. Allora mi feci animo e gli esposi il caso disgraziato
di due camerati bolognesi. Il suo volto si rattristò.
"Farò aver loro diecimila lire. Va bene?".
Volle sapere i nomi e gli indirizzi. Li scrisse egli stesso,
negli appunti. Poi mi chiese: " Desiderate qualche cosa
da me?". Dopo un momento di perplessità risposi:
"Il mio premio l'ho già avuto, è stato l'elogio
che avete voluto farmi. Oso troppo se vi chiedo una dedica?".
Gli mostrai una grande fotografia. La fissò un attimo,
scosse il capo. Evidentemente, non era troppo soddisfatto dell'immagine.
Poi tornò al tavolo, si sedette, prese la penna e scrisse:
"A Gian Gaetano Cabella, pilota de Il Popolo di Alessandria,
con animo della vecchia guardia. B. Mussolini, 20 aprile XXIII".
Posò la penna. Volle vedere i grafici. La tiratura del
giornale era descritta da un diagramma. Vi era tracciata una
linea ascendente, con leggere contrazioni, qua e là.
"A che cosa attribuite queste diminuzioni di vendita?".
"Credo che occorra ogni tanto, specie dopo numeri di grande
rilievo esteriore, fare uscire qualche numero pallido, senza
forti titoli". Esposi, poi, brevemente i criteri che seguivo
e che mi parevano giusti, quindi soggiunsi: "Mi siete stato
maestro. Conservo la raccolta de "l'Avanti!" e quella
del "Popolo d'Italia"...". Mussolini scosse la
testa, stette un attimo pensoso e osservò: "Si nasce
giornalisti come si nasce compositori o tecnici. Creare il giornale
è come conoscere la gioia della maternità. Il
criterio di non monotizzare è giusto. Non si può
dare un concerto con soli tromboni e grancasse. Il pubblico,
dopo i primi istanti di sbalordimento, finirebbe con l'abituarvisi.
Vedo che siete anche un abile amministratore. Siete genovese...".
Si soffermò sul grafico che riguardava la corrispondenza
ricevuta dal pubblico, lettori e lettrici e osservò:
"Molte lettere anonime, vedo". "Ricevo al giornale
circa un dieci per cento di anonime. Però quando le vicende
dell'Asse vanno meglio, le lettere anonime diminuiscono".
Gli dissi anche che in Alessandria avevo appiccicato le più
divertenti ad una parete. Mussolini sorrise: "Ho visto
le fotografie della vostra redazione". "Nel mese di
marzo - precisai - su 2785 lettere ricevute, 360 sono state
anonime". "Oltre 2400 lettere non anonime in un mese:
sono moltissime. Fate rispondere?". Gli dissi che rispondevo
personalmente a tutti e nella rubrica "Il Direttore risponde"
e, in gran parte direttamente. "Ho constatato che, così
facendo, si ottiene una grande pubblicità. Chi riceve,
specie in un piccolo centro, una lettera personale del direttore,
la fa vedere a più persone. Automaticamente diventa un
fedele propagandista". Mussolini prese il pacchetto delle
lettere che gli avevo portato insieme con altre cose. Gli feci
osservare che avevo diviso le missive in tre gruppi. Volle tenerle
tutte. "Se avrò tempo, le leggerò stasera".
Intanto aprì tre lettere che avevo messo più in
vista: una di una signora che abitava presso Torino; un'altra
di un giovane volontario, Puni, di Torino; la terza di una personalità
ligure. "Ringrazierete la signora e il ragazzo. Lasciatemi
l'altra: farò rispondere direttamente. Avete qualche
cosa ancora da dirmi?". "Ho due collaboratori, un
fascista e un vecchio socialista fiorentino...". Mussolini
mi disse subito i nomi di entrambi e aggiunse: "Fate loro
i miei elogi. Dite loro che leggo gli articoli che scrivono,
con interesse". Ebbi l'impressione che l'udienza fosse
per finire. Mussolini aveva riaperta la raccolta del giornale
e, in ultimo, aveva trovato le copie del giornale "Il Monarchico",
che avevo stampato alla macchia facendo finta fosse l'organo
di un gruppo monarchico "C. Cavour" di Torino, e una
copia del "Grido di Spartaco", che avevo stampato
clandestinamente. Mussolini rise, ed esclamò: "Mi
sono piaciuti. Anche per questo lavoro vi elogio". Allora
mi feci animo: "Duce, permettete che vi rivolga qualche
domanda?". Mussolini si alzò. Mi venne vicino. Guardandomi
negli occhi, con un accento e un'espressione che non dimenticherò
mai, mi chiese d'improvviso:
***
"Intervista o testamento?".
***
A quella domanda inaspettata io rimasi esterrefatto. Non seppi
cosa rispondere. Non sfuggì la mia emozione a Mussolini,
che cercò di dissipare la mia confusione con un sorriso
bonario. "Sedetevi qui. Ecco una penna e della carta. Sono
disposto a rispondere alle domande che mi farete". In preda
ad una grande agitazione , mi sedetti alla sua sinistra. La
sua mano era vicina alla mia. Molte idee mi si affollavano nella
mente, ma tutte imprecise. Finalmente formulai una domanda assai
generica: "Qual è il vostro pensiero, quali sono
i vostri ordini, in questa situazione?". Invece di "ordini"
dissi "disposizioni"; ma siccome nel testo dell'intervista,
che il giorno dopo Mussolini rivide, corresse e siglò,
sta scritto "ordini", lascio l'espressione ch'egli
stesso approvò. Debbo aggiungere che, quantunque io abbia
preso nota con la maggiore attenzione possibile di quanto Mussolini
mi andava dicendo, non ho potuto, nelle giornate che seguirono
il colloquio, riferirlo con esattezza minuta, rigorosa. Solo
a distanza di tempo, oggi, ricordo bene; con assoluta precisione.
Perciò posso completare ciò che non mi fu possibile
allora. Ecco il perché di queste note, delle note che
seguiranno. Alla mia domanda, Mussolini, a sua volta domandò:
"Voi cosa fareste?". Debbo aver accennato un gesto
istintivo di sorpresa. Mussolini mi toccò il braccio,
e sorrise di nuovo: "Non vi stupite. Faccio questa domanda
a tutti. Desidero sentire il vostro parere". "Duce,
non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto
dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo
in tanti, fedeli, armati...". "Certo, sarebbe la fine
più desiderabile... ma non è possibile fare sempre
ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il Cardinale
Schuster fa da intermediario. Non sarà versata una goccia
di sangue". Veramente disse: "Ho l'assicurazione che
non sarà versata una goccia di sangue". "Un
trapasso di poteri. Per il governo, il passaggio fino in Valtellina,
dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi
in montagna per un po' di tempo" . Osai interromperlo:
"Vi fidate, Duce, del Cardinale?". Mussolini alzò
gli occhi e fece un gesto vago con le mani. "E' viscido.
Ma non posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. E'
la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque,
finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli
italiani". "Ma noi vogliamo seguire la vostra sorte...".
"Dovete ubbidire. La vita dell'Italia non termina in questa
settimana o in questo mese. L'Italia si risolleverà.
E questione di anni, di decenni, forse. Ma risorgerà,
e sarà di nuovo grande, come l'avevo voluta io".
Dopo una brevissima pausa, continuò: "Allora sarete
ancora utili per il Paese. Trasmetterete ai figli e ai nipoti
la verità della nostra idea, quella verità che
è stata falsata, svisata, camuffata da troppi cattivi,
da troppi malvagi, da troppi venduti e anche da qualche piccola
aliquota di illusi". Forse Mussolini non disse: "troppi".
Ho l'impressione che dicesse solo: "malvagi e venduti".
Quando rilesse le righe che seguono, le segnò a lato;
e fece un gesto con la testa come per farmi comprendere che
l'espressione non gli era troppo piaciuta. Tuttavia non la cancellò.
La sua voce aveva i toni metallici che tante volte avevo udito
nei suoi discorsi. Poi, con fare più pacato, continuò:
"Dicono che ho errato, che dovevo conoscere meglio gli
uomini, che ho perduta la testa, che non dovevo dichiarare la
guerra alla Francia e all'Inghilterra. Dicono che mi sarei dovuto
ritirare nel 1938. Dicono che non dovevo fare questo, e che
non dovevo fare quello. Oggi è facile profetizzare il
passato". "Ho una documentazione che la storia dovrà
compulsare per decidere. Voglio solo dire che, a fine maggio
e ai primi di giugno del 1940 se critiche venivano fatte erano
per gridare allo scandalo di una neutralità definita
ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto.
Noi non solo non avremmo avuto alcun compenso; ma saremmo stati
certamente, in un periodo di tempo più o meno lontano,
invasi e schiacciati". Mussolini mi disse di far risaltare
che le frasi da lui sottolineate riguardavano i discorsi della
gente. Egli stesso sottolineò con segno più forte
l'espressione: "La Germania aveva vinto", con tutto
ciò che segue. "E cosa fa Mussolini? Quello si è
rammollito. Un'occasione d'oro così, non si sarebbe mai
più ripresentata". Così dicevano tutti e
specialmente coloro che adesso gridano che si doveva rimanere
neutrali e che solo la mia megalomania e la mia libidine di
potere, e la mia debolezza nei confronti di Hitler aveva portato
alla guerra. "La verità è una: non ebbi pressioni
da Hitler. Hitler aveva già vinta la partita continentale.
Non aveva bisogno di noi. Ma non si poteva rimanere neutrali
se volevamo mantenere quella posizione di parità con
la Germania che fino allora avevamo avuto. I patti con Hitler
erano chiarissimi. Ho avuto ed ho per lui la massima stima.
Bisogna distinguere fra Hitler ed alcuni suoi uomini più
in vista...". A queste considerazioni Mussolini ne aggiunse
varie altre. Questa d esempio: "Ho parlato sempre col Führer
della sistemazione dell'Europa e dell'Africa. Non abbiamo mai
avuto divergenze di idee. Già all'epoca delle trattative
per lo sgombero dell'Alto Adige, controprova indiscutibile delle
sue oneste e solidali intenzioni, il Führer dimostrò
buon volere e comprensione". La sistemazione dell'Europa
avrebbe dovuto attuarsi in questo modo: "L'Europa divisa
in due grandi zone di influenza: nord e nord-est influenza germanica,
sud, sud-est e sud-ovest influenza italiana. Cento e più
anni di lavoro per la sistemazione di questo piano gigantesco.
Comunque, cento anni di pace e di benessere. Non dovevo forse
vedere con speranza e con amore una soluzione di questo genere
e di questa portata? "In cento anni di educazione fascista
e di benessere materiale il Popolo italiano avrebbe avuto la
possibilità di ottenere una forza di numero e di spirito
tale da controbilanciare efficacemente quella oggi preponderante
della Germania. "Una forza di trecento milioni di europei,
di veri europei, perché mi rifiuto di definire gli agglomerati
balcanici e quelli di certe zone della Russia anche nelle stesse
vicinanze della Vistola; una forza materiale e spirituale da
manovrare verso l'eventuale nemico di Asia o di America. "Solo
la vittoria dell'Asse ci avrebbe dato diritto di pretendere
la nostra parte dei beni del mondo, di quei beni, che sono in
mano a pochi ingordi e che sono la causa di tutti i mali, di
tutte le sofferenze e di tutte le guerre. "La vittoria
delle Potenze cosiddette alleate non darà al mondo che
una pace effimera e illusoria. "Per questo voi, miei fedeli,
dovete sopravvivere e mantenere nel cuore la fede. Il Mondo,
me scomparso, avrà bisogno ancora dell'Idea che è
stata e sarà la più audace, la più originale
e la più mediterranea ed europea delle idee. "Non
ho bluffato quando affermai che l'Idea Fascista sarà
l'Idea del secolo XX. Non ha assolutamente importanza una eclissi
anche di un lustro, anche di un decennio. Sono gli avvenimenti
in parte, in parte gli uomini con le loro debolezze, che oggi
provocano questa eclissi. Indietro non si può tornare.
La Storia mi darà ragione". A questo punto Mussolini
tacque. Scosse alcune volte la testa come per scacciare un pensiero
molesto. Quando, due giorni dopo, gli portai il dattiloscritto
di queste dichiarazioni, fece in più punti, specie là
ove mi aveva parlato di una forza di trecento milioni di europei,
di "veri europei", alcuni segni di distacco: segni
di lapis. Mi disse che avevo dimenticato molte cose importanti.
Oggi le ricordo benissimo tutte. Mussolini parlò della
sua presa di posizione nel 1933-'34 fino ai colloqui di Stresa
(aprile '35). Affermò che la sua azione non era stata
interamente compresa e tanto meno seguita né dall'Inghilterra
né dalla Francia. E soggiunse: "Siamo stati i soli
ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania. Mandai
le divisioni al Brennero; ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò.
Impedire alla Germania di rompere l'equilibrio continentale
ma nello stesso tempo provvedere alla revisione dei trattati;
arrivare ad un aggiustamento generale delle frontiere fatto
in modo da soddisfare la Germania nei punti giusti delle sue
rivendicazioni, e cominciare col restituirle le colonie; ecco
quello che avrebbe impedito la guerra. Una caldaia non scoppia
se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si
chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo
gli fu impedito". Dopo qualche istante di silenzio ardii
chiedergli: "Avete detto che l'eventuale vittoria dei nostri
nemici non potrà dare una pace duratura. Essi nella loro
propaganda affermano... " "Indubbiamente abilissima
propaganda, la loro. Sono riusciti a convincere tutti. Io stesso
a volte...". Mussolini sottolineò la frase: "Io
stesso, a volte..." e sorrise. Posò il lapis sul
tavolo e sollevò due o tre volte le mani fino all'altezza
delle tempie. Poi, parlando lentamente e staccando le sillabe,
aggiunse: "Qualunque cosa detta da loro è la verità.
Mi sono chiesto la ragione di questa specie di ubriacatura collettiva.
Sapete che cosa ho concluso?". Alzò il capo e mi
fissò. E proseguì: " Ho concluso che ho sopravvalutato
l'intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho
avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida
che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di
comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo...".
"Ma il colmo è che i nostri nemici hanno ottenuto
che i proletari, i poveri, i bisognosi di tutto, si schierassero
anima e corpo dalla parte dei plutocrati, degli affamatori,
del grande capitalismo". Mussolini ha segnato fortemente
queste righe. Sono convinto di non aver saputo riferire bene
tutto il suo pensiero. Mi disse: "Non avete detto tutto.
Avete rimpicciolito la mia idea. Ne riparleremo...". Invece,
non ci fu più né tempo e né modo di riparlarne.
Pochi giorni dopo, fu Dongo, fu l'esecuzione, fu Piazzale Loreto.
***
La vittoria degli alleati riporterà indietro la linea
del fronte delle rivendicazioni sociali. La Russia? Il capitalismo
di stato russo (credo superfluo insistere sulla parola bolscevismo)
è la forma più spinta e meno socialista di un
ibrido capitalismo, che si può solamente sostenere in
Russia, appoggiato all'ignoranza, al fatalismo e alle storie
di cosacchi, che hanno lasciato lo "knut" per il mitra.
Questo capitalismo russo dovrà cozzare fatalmente con
il capitalismo anglosassone. Sarà allora che il Popolo
italiano avrà la possibilità di risollevarsi e
di imporsi. L'uomo che dovrà giocare la grande carta...".
"Sarete voi, Duce...". "Sarà un giovane.
Io non sarò più. Lasciate passare questi anni
di bufera. Un giovane sorgerà. Un puro. Un capo che dovrà
immancabilmente agitare le idee del fascismo. Collaborazione
e non lotta di classe; carta del Lavoro e socialismo; la proprietà
sacra fino a che non diventi un insulto alla miseria; cura e
protezione dei lavoratori, specialmente dei vecchi e degli invalidi;
cura e protezione della madre e dell'infanzia...". Mussolini
volle sottolineare queste frasi programmatiche. Mi disse più
precisamente: "Onora il padre e la madre". Depose
il lapis col quale segnava le correzioni sul dattiloscritto
e si passò una mano sulla fronte. Poi, dopo un attimo
di silenzio soggiunse: "A volte si torna indietro nel tempo.
E' pur grande la nostalgia del tepore sicuro del petto materno".
E continuò: assistenza fraterna ai bisognosi; moralità
in tutti i campi; lotta contro l'ignoranza e contro il servilismo
verso i potenti; potenziamento, se si sarà ancora in
tempo, dell'autarchia, unica nostra speranza fino al giorno
utopistico della suddivisione fra tutti i popoli delle materie
prime che Iddio ha dato al mondo; esaltazione dello spirito
di orgoglio di essere italiano; educazione in profondità
e non, purtroppo, in superficie come è avvenuto per colpa
degli avvenimenti e non per deficienza ideologica. "Verrà
il giovane puro che troverà i nostri postulati del 1919
e i punti di Verona del 1943: freschi e audaci e degni di essere
seguiti. Il Popolo allora avrà aperto gli occhi e lui
stesso decreterà il trionfo di quelle idee. Idee che
troppi interessati non hanno voluto che comprendesse ed apprezzasse
e che ha creduto fossero state fatte contro di lui, contro i
suoi interessi morali e materiali...". Anche qui Mussolini
trovò che non avevo detto tutto quanto egli aveva espresso.
Nella riga in cui si registravano le sue parole a proposito
della utopistica suddivisione delle materie prime fra i popoli
della Terra, corresse un errore madornale. Arrossii. Egli se
ne accorse e rise. Poi disse: "Quando vi si incolpa di
avere sbagliato, dite pure che Mussolini sbaglia dodici volte
al giorno!". Quindi proseguì: "Abbiamo avuto
diciotto secoli di invasioni e di miserie, e di denatalità
e di servaggio, e di lotte intestine e di ignoranza. Ma, più
di tutto, di miseria e di denutrizione. Venti anni di Fascismo
e settanta di indipendenza non sono bastati per dare all'anima
di ogni italiano quella forza occorrente per superare la crisi
e per comprendere il vero. Le eccezioni, magnifiche e numerosissime
non contano". "Questa crisi, cominciata nel 1939,
non è stata superata dal popolo italiano. Risorgerà,
ma la convalescenza sarà lunga e triste e guai alle ricadute.
Io sono come il grande clinico che non ha saputo fare la cura...
". Qua corresse: "cura". (Io avevo scritto: diagnosi).
Ci pensò su un attimo, poi aggiunse: "la diagnosi
era giusta!". Mi guardò. Mi disse: "aggiungeremo
qualche altra considerazione...". "...esatta e che
non ha più la fiducia dei familiari dell'importante degente.
Molti medici si affollano per la successione. Molti di questi
sono già conosciuti per inetti; altri non hanno che improntitudine
o gola di guadagno. Il nuovo dottore deve ancora apparire. E
quando sorgerà, dovrà riprendere le ricette mie.
Dovrà solo saperle applicare meglio". "Un accusatore
dell'ammiraglio Persano, al quale fu chiesto che colpa, secondo
lui, aveva l'Ammiraglio: "quella di aver perduto"
rispose. "Così io. Ho qui delle tali prove di aver
cercato con tutte le mie forze di impedire la guerra che mi
permettono di essere perfettamente tranquillo e sereno sul giudizio
dei posteri e sulle conclusioni della Storia". Nel dire
"ho qui tali prove", indicò una grande borsa
di cuoio. Mi sembra, delle tre, fosse quella di pelle gialla.
Poi toccò una cassetta di legno...... "Non so se
Churchill è, come me, tranquillo e sereno. Ricordatevi
bene: abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e dei
grandi speculatori. Essi non hanno voluto che ci fosse data
la possibilità di vivere. Se le vicende di questa guerra
fossero state favorevoli all'Asse, io avrei proposto al Fuehrer,
a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale". Mussolini
sorrise lievemente quando parlò della sua serenità
e tranquillità. Sorrise di nuovo quando fece cenno a
Churchill. Il sorriso si mutò in una smorfia di disprezzo
allorché parlò degli affaristi e degli speculatori.
"La socializzazione mondiale, e cioè: frontiere
esclusivamente a carattere storico; abolizione di ogni dogana;
libero commercio fra paese e paese, regolato da una convenzione
mondiale; moneta unica e, conseguentemente, l'oro di tutto il
mondo di proprietà comune e così tutte le materie
prime, suddivise secondo i bisogni dei diversi paesi; abolizione
reale e radicale di ogni armamento". "Colonie: quelle
evolute erette a Stati indipendenti; le altre, suddivise fra
quei paesi più adatti per densità di popolazione,
o per altre ragioni, a colonizzare ed a civilizzare; libertà
di pensiero e di parola e di scritto regolate da limiti: la
morale, per prima cosa, ha i suoi diritti". Mussolini disse
precisamente: "Libertà di pensiero, di parola e
di stampa? Sì, purché regolata e moderata da limiti
giusti, chiaramente stabiliti. Senza di che, si avrebbe anarchia
e licenza. E ricordatevi, sopra tutto la morale deve avere i
suoi diritti". "Ogni religione liberissima di propagandarsi:
siamo stati i primi, i soli, a ridare lustro e decoro e libertà
e autorità alla Chiesa cattolica. Assistiamo a questo
straordinario spettacolo: la stessa Chiesa alleata ai suoi più
acerrimi nemici". Mussolini aveva dettato: "alla Chiesa".
Poi aggiunse: "cattolica". Quindi spiegò: "La
Chiesa cattolica non vuole, a Roma, un'altra forza. La Chiesa
preferisce degli avversari deboli a degli amici forti. Avere
da combattere un avversario, che in fondo non la possa spaventare
e che le permetta di avere a disposizione degli argomenti coi
quali ravvivare la fede, è indubbiamente un vantaggio".
Strinse le mani assieme e proseguì: "Diplomazia
abile, raffinata. Ma, a volte, è un gran danno fare i
superfurbi. Con la caduta del fascismo, la Chiesa cattolica
si ritroverebbe di fronte a nemici d'ogni genere: vecchi e nuovi
nemici. E avrebbe cooperato ad abbattere un suo vero, sincero
difensore". "Nel sud, nelle zone così dette
liberate, l'anticlericalismo ha ripreso in pieno il suo turpe
lavoro. L'Asino è, in confronto a pubblicazioni di questi
ultimi tempi, un bollettino parrocchiale". "Anche
in questo campo, gli stessi uomini che oggi non vogliono vedere,
saranno unanimi a deprecare la loro pazzia o la loro malafede.
Se la vittoria avesse arriso a noi, questo programma avrei offerto
al mondo e ancora una volta, sarebbe stata Roma a dare la luce
all'Umanità". A questo punto Mussolini tacque. Si
alzò e si avvicinò alla finestra. Avevo cercato
di fissare gli appunti nel modo il più esatto possibile,
tenendo dietro a mala pena alle sue parole, specie quando la
foga del discorso gli faceva affrettare la velocità dell'espressione.
Le cartelle erano oramai più di trenta. Finalmente Mussolini
si distaccò dalla finestra. Si rivolse di nuovo a me
e riprese: "Mi dissero che non avrei dovuto accettare,
dopo l'armistizio di Badoglio e la mia liberazione, il posto
di Capo dello Stato e del governo della Repubblica Sociale.
Avrei dovuto ritirarmi in Svizzera, o in uno Stato del sud America.
Avevo avuto la lezione del 25 luglio. Non bastava, forse? Era
libidine di potere, la mia? Ora chiedo: avrei dovuto davvero
estraniarmi?". Nell'esemplare del dattiloscritto dell'intervista
che gli presentai all'indomani, Mussolini sottolineò
energicamente le frasi interrogative. "Ero
fisicamente ammalato. Potevo chiedere, per lo meno, un periodo
di riposo. Avrei visto lo svolgersi degli avvenimenti. Ma cosa
sarebbe successo?". "I tedeschi erano nostri alleati.
L'alleanza era stata firmata e mille volte si era giurata reciproca
fedeltà, nella buona e nella cattiva a sorte. I tedeschi,
qualunque errore possano aver commesso erano, l'otto settembre,
in pieno diritto di sentirsi e calcolarsi traditi". "I
"traditori" del 1914 erano gli stessi del 1943. Avevano
il diritto di comportarsi da padroni assoluti. Avrebbero senz'altro
nominato un loro governo militare di occupazione. Cosa sarebbe
successo? Terra bruciata. Carestia, deportazioni in massa, sequestri,
moneta di occupazione, lavori obbligatori. La nostra industria,
i nostri valori artistici, industriali, privati, tutto sarebbe
stato bottino di guerra". "Ho riflettuto molto. Ho
deciso ubbidendo all'amore che io ho per questa divina adorabile
terra. Ho avuta precisissima la convinzione di firmare la mia
sentenza di morte. Non avevo importanza più. Dovevo salvare
il più possibile vite ed averi, dovevo cercare ancora
una volta di fare del bene al Popolo d'Italia E la moneta di
occupazione, i marchi di guerra, che già erano stati
messi in circolazione, sono stati per mia volontà ritirati.
Ho gridato. Oggi saremmo con miliardi di carta buona per bruciare".
"Invece nel Sud, i governanti legali, hanno accettato le
monete di occupazione. La nostra lira nel regno del Sud non
ha praticamente più valore. La più tremenda delle
inflazioni delizia quelle regioni così dette liberate.
Quando arrivammo nel Nord, in questo Nord che la Repubblica
Sociale ha governato malgrado bombardamenti, interruzioni di
strade, azioni di partigiani e di ribelli, malgrado la mancanza
di generi alimentari e di combustibili, in questo Nord dove
il pane costa ancora quanto costava diciotto mesi fa e dove
si mangia alle Mense del Popolo anche a otto lire, quando arriveranno
a liberare il Nord, porteranno, con altri mali, la inflazione.
Il pane salirà a 100 lire il chilo e tutto sarà
in proporzione...". Credo di aver qui reso abbastanza bene
il pensiero di Mussolini perché all'indomani, rileggendo
queste cartelle egli approvava con frequenti cenni del capo.
"Mi sono imposto e ho avuto uomini che mi hanno ubbidito.
Non si è stampato che il minimo occorrente, di moneta.
Ho però autorizzato le banche ad emettere degli assegni
circolari, questi tanto criticati assegni. Non sono tesaurizzabili:
ecco la loro importanza. La lira-moneta automaticamente viene
richiesta, acquista credito, le rendite e i consolidati sono
a 120, e dobbiamo frenare un ulteriore aumento. Tutto questo,
ho fatto". "Ho impedito che i macchinari venissero
trasportati in Baviera. Ho cercato di far tornare migliaia di
soldati deportati, di lavoratori rastrellati. Anche su questo
punto, occorre parlar chiaro: ho dei dati inoppugnabili".
"Oltre trecentosessantamila lavoratori hanno chiesto volontariamente
di andar a lavorare in Germania, e hanno mandato, in quattro
anni, alcuni miliardi alle famiglie. Altri trecentoventimila
operai sono stati arruolati dalla Todt. ( Dalla Germania sono
tornati oltre quattrocentomila soldati ed ufficiali prigionieri,
o perché hanno optato per noi, o per mio personale interessamento
secondo i casi più dolorosi". "Ho impedito
molte fucilazioni anche quando erano giuste. Ho cercato, con
tre decreti di amnistia e di perdono di procrastinare il più
possibile le azioni repressive che i Comandi germanici esigevano
per avere le spalle dei combattenti protette e sicure. Ho distribuito
a povera gente, senza informarmi delle idee dei singoli, molti
milioni. Ho cercato di salvare il salvabile. Fino ad oggi l'ordine
è stato mantenuto: ordine nel lavoro, ordine nei trasporti,
nelle città". "I ribelli ci sono. Sono molti;
ma, salvo qualche aliquota di illusi, la grande massa è
composta di renitenti, di disertori, di evasi dalle galere e
dai penitenziari. Gli alleati sanno perfettamente questo, ma
sanno anche che queste formazioni sono utilissime per i loro
sforzi di guerra. Poi, a liberazione avvenuta, succederà
come in Grecia. Sul vostro giornale avete messa in giusta evidenza
la disperata trasmissione dei partigiani greci in lotta contro
i liberatori inglesi". Era stata captata una radiotrasmissione
clandestina di partigiani greci in lotta contro i britannici.
Detti risalto alla notizia, e feci distribuire alcune migliaia
di copie del giornale nelle zone partigiane. "Dovevo, di
fronte ad una situazione che vedevo tragicamente precisa, disertare
il mio posto di responsabilità? Leggete: sono i giornali
del Sud. Mussolini prigioniero dei tedeschi. Mussolini impazzito.
Mussolini ammalato. Mussolini con la sua favorita. Mussolini
con la paralisi progressiva. Mussolini fuggito in Brasile".
Mussolini mi mostrava i ritagli. Ne leggeva i titoli ad alta
voce. Ogni volta, dopo aver scandito le sillabe di ogni titolo,
sollevava gli occhi per vedere la mia reazione. Poi strinse
il pugno e lo batté con energia sul tavolo. "Invece
sono qui, al mio posto di lavoro, dove mi troveranno i vincitori.
Lavorerò anche in Valtellina. Cercherò che il
mondo sappia la verità assoluta e non smentibile di come
si sono svolti gli avvenimenti di questi cinque anni. La verità
è una". "Ma c'è è ancora una
speranza? Ci sono le armi segrete?". "Ci sono. Se
non fosse avvenuto l'attentato contro Hitler nell'estate scorsa,
si avrebbe avuto il tempo necessario per la messa in azione
di queste armi. Il tradimento anche in Germania ha provocato
la rovina, non di un partito, ma della patria". Più
esattamente Mussolini disse: "Ci sono: sarebbe ridicolo
e imperdonabile bluffare". E quando pronunciò la
parola "tradimento" esclamai: "Ma noi vi siamo
stati e vi saremo sempre fedeli". Egli, allora, mi pose
la mano sul braccio e mi disse con accento triste: "Quanti
giuramenti! Quante parole di fedeltà e di dedizione!
Oggi solo vedo chi era veramente fedele, chi era veramente fascista!
Siete voialtri, sempre gli stessi fedeli delle ore belle e delle
ore gravi. Facile era osannare nel 1938! Ho una tale documentazione
di persone che non sapevano più che fare per piacermi!
E al primo apparire della tempesta, prima si sono ritirati prudentemente
per osservare lo svolgersi degli avvenimenti. Poi si sono messi
dalla parte avversaria. Che tristezza. Ma che conforto, finalmente,
poter vedere che vi sono i puri, i veri, i sinceri. Tradire
l'idea... tradire me... ma tradire la Patria". Quindi,
proseguendo a parlare delle armi segrete tedesche, dichiarò:
"Le famose bombe distruttrici sono per essere approntate.
Ho, ancora pochi giorni fa, avuto notizie precisissime. Forse
Hitler non vuole vibrare il colpo che nella assoluta certezza
che sia decisivo". "Pare che siano tre, queste bombe
e di efficacia sbalorditiva. La costruzione di ognuna è
tremendamente complicata e lunga. Anche il tradimento della
Romania ha influito, in quanto la mancanza della benzina è
stata la più terribile delle cause della perdita della
supremazia aerea. Venti, trentamila apparecchi fermi o distrutti
al suolo. Mancanza di carburante. La più tremenda delle
tragedie". "Duce, pensate che inglesi e americani
possano vedere i russi arrivare nel cuore dell'Europa? Non sarà
possibile una presa di posizione...?". "I carri armati
che penetrano nella Prussia Orientale sono di marca americana".
A questo punto Mussolini volle precisare che non riteneva, oramai,
più possibile sperare in un capovolgimento del fronte.
Disse anche: "Forse Hitler si illude". Poi aggiunse:
"Eppure, si sarebbe ancora in tempo, se ...". Alzò
le sopracciglia, fece un ampio gesto con le mani, come per farmi
capire: "Tutto è possibile". Quindi riprese:
"Il compito degli alleati è di distruggere l'Asse.
Poi...".
"Poi?". "Ve l'ho detto. Scoppierà una
terza guerra mondiale. Democrazie capitalistiche contro bolscevismo
capitalistico. Solo la nostra vittoria avrebbe dato al mondo
la pace con la giustizia. Mi , hanno tanto rinfacciata la forma
tirannica di disciplina che imponevo agli italiani. Come la
rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli italiani vorranno
essere ancora un Popolo e non un agglomerato di schiavi"
. "E gli italiani la vorranno. La esigeranno. Cacceranno
a furor di popolo i falsi pastori, i piccoli malvagi uomini
asserviti agli interessi dello straniero. Porteranno fiori alle
tombe dei martiri, alle tombe dei caduti per un'idea che sarà
la luce e la speranza del mondo. Diranno, allora, senza piaggeria,
e senza falsità: Mussolini aveva ragione". Mussolini
a questo punto prese le cartelle dove avevo messo gli appunti.
"Non farete un articolo. Riprendete da questi appunti quello
che vi ho detto. Dopodomani mattina mi porterete il dattiloscritto.
Se ne avrò tempo riprenderemo fra qualche giorno questo
lavoro". Dissi al Duce che in anticamera era il mio redattore
capo, già direttore di un settimanale di Brescia. Mussolini
lo fece chiamare. Rimanemmo ancora dieci minuti in udienza.
Ho terminato stanotte, 21-22 aprile queste note, che porterò
domani al Duce. Per mancanza di carta, ho dovuto scrivere le
ultime quattro cartelle al rovescio delle prime quattro. Spero
di aver interpretato il pensiero del Duce. Viva Mussolini! Viva
la Repubblica Sociale! Viva il Fascismo! Terminata la dettatura
entrò il redattore capo sottotenente Lucarini. Mussolini
si intrattenne con noi ridendo e scherzando per circa un quarto
d'ora. Quando uscimmo nell'anticamera, fummo circondati da gerarchi
e camerati. Vittorio Mussolini volle vedere la fotografia. Mezzasoma
disse: "E' ben raro che egli scriva delle dediche così".
Dopo di che mi accinsi al lavoro. Lavorai tutta la notte al
giornale. Quel numero del 21 aprile, però, non uscì
più. La notte seguente misi in ordine gli appunti. Lavorai
come potei. Tre allarmi aerei; tre volte la luce si spense.
La mattina del 22, alle 11, tornai in Prefettura. Mussolini
era fuori. Fece ritorno alle 12,40. Attraversò l'anticamera
con passo rapido. Rispose con aria stanca ai nostri saluti.
Quando fu sulla soglia della sua stanza da lavoro, si voltò
e mi fece cenno di attendere. Barracu, dopo una decina di minuti,
mi introdusse da lui. Stava mangiando. Avevano portato un "cabaret"
con una zuppiera. Sorbì alcune cucchiaiate di minestra.
Mangiò un po' di verdura, un pezzettino di lesso, due
patate e una carota bollita. Poi una mela. Bevve due dita di
acqua minerale. Quindi si volse verso di me, e mi disse: "Fatemi
vedere il vostro lavoro". Scostò delle carte. Lesse
con attenzione, lentamente. Il suo volto aveva visibili tracce
di stanchezza. Alla distanza di sole quarantott'ore, sembrava
molto invecchiato. Corresse e tracciò molti segni, come
risulta dal dattiloscritto. Alla fine mi disse: "Va bene.
Ci rivedremo forse in questi giorni. Qualunque cosa accada,
non fate vedere ad alcuno questo scritto. Se dovesse accadere
il crollo, per tre anni tenetelo nascosto. Poi fate voi, secondo
le vicende e secondo il vostro criterio. Ora andate". Salutai
senza poter dire una parola. Mi sorrise e fece un gesto di arrivederci.
Uscii dalla Prefettura con l'animo in tumulto. Non dovevo più
rivederlo.
Milano, 22 aprile 1945