L'esilio
degli Italiani
"Felix qui potest rerum cognoscere causam" argomentava
Virgilio nelle "Georgiche" quasi duemila anni orsono
ponendosi davanti alla soluzione di tutti gli enigmi e all'essenza
di ogni verità dello scibile. Ma riuscire a far proprie
le origini e le ragioni, i come ed i perché delle cose
e degli avvenimenti significa, oggettivamente, coincidere con
la divinità, estraniarsi cioè dalla condizione umana.
E, comunque, il valore di ciò che conosciamo va sempre
messa a confronto a quello che il prossimo è disposto ad
accettare in una eterna alternanza di forze e di resistenze. Sul
piano storico ciò avviene in forma evidente tanto che più
che ai temi ricorrenti nei vichiani corsi e ricorsi sarebbe meglio
pensare al perpetuarsi di un sistema. In altre parole non sono
il bene e il male una volta l'uno l'altra volta l'altro, che prevalgono,
ma le tecniche, i sistemi che li creano. Le dittature, cioè,
si alternano alle dittature e, raramente ad altre forme come quelle
democratiche. È così che in Italia stiamo vivendo
la terza dittatura consecutiva in tre quarti di secolo: dopo quella
classica e tanto criticata del Ventennio, quella resistenziale
e parlamentare o consociativa, che dir si voglia, e quella odierna
che, più che essere della Seconda Repubblica, pare quella
della linearizzazione delle coscienze, del solidarismo globale
e dell'utopia europeista. In questo contesto, reale e non storicistico,
quale spazio può avere la vicenda nord orientale italiana,
la tragedia delle Foibe e quella dell'Esodo giuliano dalmata?
Quale interesse può suscitare l'ostinata recalcitranza
di chi, come gli esuli istriani, fiumani e dalmati, oltre a voler
dare il giusto risalto nazionale ai propri sacrifici vuole combattere
fino in fondo la battaglia contro la perdita forzata della memoria?
Nessun interesse, solo fastidio, anzi, ostacolo ai disegni di
quella terza dittatura qui descritta e intenta a materializzare
la massima di Orwell: "chi controlla il passato controlla
il futuro". L'Esodo dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia
fu provocato dall'azione slavo-comunista di Tito che, con il consenso
internazionale - e non solo quello sovietico - e la debolezza
interna italiana, conquistò le terre, le ebbe in sovranità
e mise in atto una metodica pulizia etnica destinata a eliminare
in Istria la storia, la cultura ed il numero di italiani a favore
di una slavizzazione, desiderata da secoli ed entrata come costante
nel patrimonio genetico slavo. Fin dal 1942 il futuro boia di
Pisino, Ivan Motika, girava l'Istria redigendo elenchi di notabili
italiani da eliminare per consentire la rapida penetrazione nel
tessuto sociale dell'elemento slavo-comunista. La prima occasione
si presentò dopo l'8 settembre 1943, in quell'autunno di
sbandamento ed incertezze con le centinaia di morti della prima
fase delle Foibe. Non fu una rivolta contadina come valvola di
sfogo per la rabbia provocata dalle vessazioni fasciste, fu la
prova generale di un progetto che arrivava da lontano, andava
lontano e, certo, faceva leva sul desiderio di vendetta di qualche
singolo. Nel 1946, secondo l'ammissione dello stesso Milovan Gilas,
braccio destro di Josip Broz Tito, lui ed Edward Kardelj furono
inviati in Istria per studiare il modo di subordinare l'elemento
italiano ai nuovi padroni. Il terrore, insieme all'incertezza
per il futuro in una diabolica formula, è il metodo più
sbrigativo per costringere ad andarsene o, comunque, per tacitare
e annichilire. Così fu fatto mentre l'Italia, impotente
ed inetta di fronte allo strapotere comunista interno, che a malapena
riusciva a non perdere Trieste, scontava il valore delle terre
perdute dall'ammontare dei danni di guerra da pagare alla federativa
jugoslava. Come se la Croazia non fosse stata alleata all'Asse.
Vivere in terra di confine non è un arricchimento, come
qualcuno sostiene, ma è fonte di un'esistenza in perenne
conflittualità, soprattutto sul piano dell'identità
nazionale. Infatti nei censimenti della popolazione fino al 1910
si può vedere l'effetto della politica austriaca avversa
all'irredentismo italiano e favorevole alla più fedele
componente slava. I croati sono il 41%, gli italiani il 36%, gli
sloveni il 14%, i tedeschi il 3%. Il censimento del 1921 si compie,
come si ha modo di notare, in maniera opposta, evidenzia il 63%
di italiani, il 24% di croati e il 12% di sloveni, ma è
visto come pilotato dalla italianizzazione forzata e dagli stessi
funzionari rilevatori. Non è ben chiaro il perché
dal momento che questi dati vengono sostanzialmente confermati
dalle prime elezioni a suffragio universale virile dello stesso
anno. Ad ogni modo anche Carlo Schiffrer, storico ed esperto italiano
alla Conferenza di pace di Parigi nel 1947, dovette adattarsi
a rivisitare tali cifre in modo, diciamo, politico e diplomatico:
"prendere come base il censimento del 1921 ma non accettare
per buone che le proporzioni tra le varie nazionalità,
le quali si presentano con una certa costanza in tutti gli ultimi
censimenti a partire dal 1880; in caso di disaccordo stridente
tra i vari dati, scegliere in genere la cifra più favorevole
agli slavi, a meno che non si tratti del territorio di quei comuni
che erano amministrati dai partiti nazionali slavi". Queste
modificazioni non del tutto scientifiche, portarono il gruppo
italiano al 51%, quello croato al 28%, quello sloveno al 12%.
I dati qui formati e aggiunti alla già citata secolare
opera di deitalianizzazione dell'Austria, danno, comunque, la
misura del sentimento di appartenenza delle popolazioni giuliano
dalmate. In ogni caso si sa di certo, per vissuto e testimonianze,
per le rilevazioni statistiche dell'Opera per l'assistenza ai
profughi giuliani e dalmati, per le risultanze di archivi ed uffici
quali quelli delle prefetture, che quasi il 60% della gente se
ne andò - di cui oltre il 90% dell'elemento italiano -
con punte del 90% come a Rovigno, lasciando città e paesi
desolatamente vuoti. Furono 350.000 dal 1943 ai primi anni Sessanta,
di cui 201.440 censiti e con documentazione depositata presso
l'Archivio di Stato di Roma, altri emigrati senza lasciare traccia
agli uffici di emigrazione ma assenti dalle proprie città,
altri profughi dopo il 1958, anno delle rilevazioni ufficiali,
altri risultanti da verifiche numeriche più capillari.
Soprattutto attraverso i centosei campi di raccolta distribuiti
su tutto il territorio nazionale la presenza giuliano dalmata
caratterizza tutte le province d'Italia e, di conseguenza, ogni
regione, tanto che, a titolo di cronaca, dalle diciannove persone
censite in Valle d'Aosta si arriva alle ottantamila del Friuli
Venezia Giulia, Dallo studio dei censiti si è potuto stabilire
che il 45,6% erano operai, il 5,7% liberi professionisti, il 17,6%
impiegati e dirigenti, il 7,7% commercianti, artigiani e assimilati
e il 23,4% non ascrivibili alle precedenti categorie. Da ciò
risulta maggiormente ignobile la tesi di chi definì gli
esuli dalle terre giuliane e dalmate, rapinate da Tito, come borghesi
e fascisti in fuga davanti all'incalzare della giustizia proletaria
e incapaci di coglierne i vantaggi e le opportunità. Si
ricacciano in gola, inoltre, le urla e gli sputi degli ignari
e male istruiti ferrovieri di Bologna che indissero uno sciopero
generale di protesta contro il passaggio e la sosta tecnica dei
convogli recanti i profughi in fuga dal paradiso dell'autogestione
titoista. Nel corso dei cinquant'anni trascorsi dall'inizio ufficiale
dell'Esodo, il 10 febbraio 1947, la Patria fece di tutto per tacere,
nascondere, talvolta fuorviare, questa vicenda. A noi non basta,
anzi ci offende, sapere che così ci comportammo per una
sorta di ragion di Stato che condannava un problema spinoso e
dirompente sul piano internazionale come il nostro a rimanere
nel dimenticatoio, così come rifiutiamo moralmente ed eticamente
oggi l'etichetta di nostalgici revanscisti che da molti ambienti
ci viene cucita addosso. La fine con giustizia di questa vicenda
è una pagina che ancora deve essere scritta e i capitoli
di questa singolare produzione letteraria riguardano i generi
di uguale dignità: giudiziario, politico ed economico,
oltre a quello astratto ma idealmente più alto, del riconoscimento
per i sacrifici sopportati. L'Esodo fu da una parte una scelta
di vita e di libertà, dall'altra un grande, inequivocabile,
italianissimo gesto d'amore.
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