Il
27 settembre Tittoni fece alla Camera le sue dichiarazioni, relative
alla questione fiumana. Considerato il fatto che gli Stati Uniti non
riconoscevano il Patto di Londra, e si opponevano in modo categorico
all'annessione di Fiume all'Italia, e tenuto conto dell'assoluta necessità
dell'Italia di ricevere cospicui aiuti finanziari dall'America, al
fine di potere sanare le gravi ferite lasciate dal lungo conflitto,
era indispensabile cercare in qualsivoglia modo un compromesso con
gli Stati Uniti. D'accordo questi sulle concessioni da fare all'Italia,
anche gli altri avrebbero dato il loro consenso. Alle dichiarazioni
di Tittoni seguì una aspra discussione, che raggiunse toni
di grande violenza, degenerando talvolta in vera e propria rissa.
Alla fine il giorno 29 fu posta la questione della fiducia al governo,
che la ottenne con 208 voti favorevoli contro 148 contrari. Sulla
questione fiumana il 30 settembre "Il Popolo d'Italia" pubblicò
il seguente articolo di Mussolini: "Tre fattori sono stati dimenticati
nella discussione che ha preceduto il voto di scarsa fiducia della
Camera e sono di grandissima importanza. E' strano come deputati e
ministri non abbiano, parlando della situazione, tenuto conto di tre
elementi decisivi. Primo: la volontà di Fiume. Secondo: la
volontà dell'Italia. Terzo: la volontà di D'Annunzio
e dei suoi legionari. Se questi tre elementi fossero stati illustrati
e presi in con-siderazione, è assai probabile che la tesi annessionistica
avrebbe trionfato. Esiste, per l'annessione, una volontà dei
fiumani, espressa e consacrata in oramai decine di atti legali del
Consiglio Nazionale e di unanimi manifestazioni di popolo. Non bisogna
dimenticare che sin dal 30 ottobre del 1918 Fiume si considera annessa
politicamente all'Italia. Cento volte è stato detto che il
caso di Fiume è quello classico dell'autodecisione dei popoli.
Ma se non bastasse la volontà plebiscitaria dei fiumani, c'è
la volontà italiana. Recenti pubblicazioni della "Trento
Trieste" confermano questo plebiscito. Ben quattromila Comuni
hanno inviato la loro adesione alla causa fiumana.Tutto l'esercito
è per Fiume. Su ciò non è possibile dubbio di
sorta. I legionari sono andati a Fiume di loro spontanea volontà,non
spinti dalla "vile borghesia", la quale, oggi, come nel
1915, ha un sacro orrore per tutto ciò che esce dai confini
del "normale" svolgimento della vita quotidiana. E' lecito
domandarsi: è possibile per il governo italiano ignorare questo
duplice grandioso plebiscito? Terzo elemento decisivo: la volontà
di d' Annunzio. Gli schemi e le rodomontate nittiane della prima ora,
quando si minacciava una energica repressione contro i "disertori",
hanno ceduto luogo a un linguaggio molto meno spavaldo. A Fiume ci
sono sedicimila soldati che obbediscono a d'Annunzio, ma quello che
a Roma si sa, è che a un cenno di d'Annunzio tutte le truppe
dall'Isonzo a Mattuglie si schiereranno con lui. Ora d'Annunzio non
è disposto a "mollare" Fiume, finchè Fiume
non sarà annessa all'Italia e contro d'Annunzio non c'è
nulla da fare, nè dall'interno, né dall'esterno. Contro
d'Annunzio non può far nulla il governo di Nitti; contro d'Annunzio
non può far nulla l'esercito jugoslavo per la semplicissima
ragione che quasi non esiste, non ha volontà e capacità
di battersi, essendo composto in gran parte dei serbi svenati da tre
guerre e minacciati da altri nemici; contro d'Annunzio non può
far nulla il sinedrio di Parigi, che si trova in istato di totale
impotenza. Così stando le cose è chiaro che per uscire
dal formidabile intrico, la via più breve e violenta è
la migliore ed è quella dell'annessione che rispetta tre volontà
e non si cura di tre impotenze. I pericoli agitati per impedire l'annessione
possono raggrupparsi in due categorie: l'isolamento diplomatico e
l'isolamento economico. Bisogna dimostrare che annettendo Fiume l'Italia
si troverebbe diplomaticamente isolata. Può darsi. Ma in un
primo e brevissimo tempo. Se l'Europa si fosse stabilizzata in alcune
definite posizioni, questo pericolo d'isolamento potrebbe essere reale;
ma tutto è ancora in fermento e in movimento ed è assai
probabile che l'Italia non sarebbe sfuggita, ma piuttosto ricercata
da quelle stesse potenze che si illudono di averla eternamente vincolata
alla loro politica. Resta l'isolamento economico. Chi potrebbe bloccarci?
L'Inghilterra e la Francia, no. Gli Stati Uniti? E' assai difficile,
se non assurdo. Bisogna dimostrare: 1) che Wilson si spingerebbe a
chiedere e ad attuare contro un popolo alleato che ha, fra parentesi,
alcuni milioni dei suoi figli in America, il blocco della fame; 2)
che il popolo americano seguirebbe Wilson. Ora per quello che si capisce
della situazione politica americana, risulta che Wilson è minacciato
da una opposizione fortissima, che non gli permetterebbe - specialmente
nella questione di Fiume - di assumere atteg-giamenti dittatori e
provocare misure draconiane contro di noi. Per queste chiare ragioni
noi continuiamo a sostenere che l'unica via d'uscita è la annessione
e che l'ordine del giorno accettato da Nitti è pleonastico.
Dire che "la Camera riafferma solennemente l'italianità
di Fiume" è una trovata simile a quella di chi affermasse
che "il sole spunta ad oriente e tramonta a ponente", e
l'aggiunta di fiducia nell'opera del governo, senza indicargli qualche
direttiva, è un piccolo servizio reso al ministero e una dimostrazione
di pusillanimità". Tuttavia malgrado le critiche violente
e l'atmosfera di rissa in Parlamento, il Governo resse e potè
subito decidere lo scioglimento della Camera ed indire nuove elezioni.
Il 29 settembre il decreto reale, relativo àppunto alle nuove
elezioni, era già stato pubblicato. Le nuove elezioni presentavano
due importanti novità: innanzi tutto era stato accettato il
principio del suffragio universale, sia pure limitato ai soli uomini
e con esclusione quindi delle donne; inoltre era stato reso esecutivo
il criterio della proporzionale per l'assegnazione dei seggi, per
cui ciascun partito avrebbe avuto nel nuovo Parlamento la rappresentanza
effettiva e reale della propria consistenza elettorale. Ai primi di
ottobre (esattamente dal giorno 5 al giorno 8) si svolse a Bologna
il congresso nazionale del partito socialista. Si affrontarono tre
correnti: quella moderata di Turati, che affermava la necessità
di collaborare alla vita parlamentare del Paese, cercando di ottenere
in cambio dalla classe politica al potere le riforme più urgenti,
in attesa di conquistare il potere direttamente e quindi di dargli
una impostazione "bolscevica"; quella massimalista, che
sosteneva la tesi della immediata rivoluzione sociale: i socialisti
dovevano entrare in Parlamento, soltanto per sabotarlo all'interno
e per farla finita con quell' "istituto borghese"; infine
la corrente degli spartachisti sosteneva la tesi secondo la quale
il proletariato avrebbe dovuto astenersi dalle elezioni e far di tutto
per provocare una rivoluzione socialista sul modello della Russia
bolscevica. Ottenne la maggioranza assoluta la corrente massimalista,
che riuscì a porre in netta minoranza sia i moderati che gli
spartachisti. Sicchè i socialisti si presentarono alle nuove
elezioni con scopi dichiaratamente rivoluzionari. Essi non compresero
che parlare tanto di rivoluzione e non attuarla mai, otteneva soltanto
lo scopo di provocare allarme e reazione, senza l'effettiva conquista
rivoluzionaria del potere. Nel corso della "campagna elettorale,
gli spartachisti non presentarono nessun candidato, ma si unirono
con i massimalisti per disturbare i comizi degli altri candidati,
e dare una idea, con le loro grida, di quello che pensavano dovesse
essere la dittatura del proletariato. Mussolini non si limitò
a gridare. A Milano e nelle città vicine, durante la campagna
elettorale comparvero gruppi di uomini armati, pagati trenta lire
al giorno, e pronti a combattere i socialisti non solo con gli urli
ma con le revolverate. (Il fatto venne reso noto a una commissione
di giornalisti milanesi da due redattori del "Popolo d'Italia"
che erano in contrasto con Mussolini; vedi "Avanti!" 12
febbraio 1920, e "Secolo" 14 febbraio 1920. La "Civiltà
Cattolica" (6 marzo 1920, pp. 472-474) commentò la notizia
nei seguenti termini: "Un pò di lu-ce. E' poca; ma questo
barlume ci basta per poter dire: quale pozzanghera!... Ecco in mano
di quali genti stanno la bandiera del patriottismo e dell'onore nazionale.")
Mussolini prese i fondi necessari per mantenere questi uomini, dalla
somma di un milione di lire, che era stata raccolta tra gli italiani
negli Stati Uniti. Questa somma doveva essere inviata a D'Annunzio.
Mussolini invece trattenne per sé 480.000 lire, e mandò
il resto a D'Annunzio. Questi in vita sua non aveva mai avuto troppi
scrupoli in fatto di soldi, ma in questa occasione si mostrò
scandalizzatissimo della operazione finanziaria condotta da Mussolini
senza il suo permesso." Malgrado comunque le intemperanze fasciste,
il clima preelettorale fu nel suo complesso abbastanza corretto. Parlare
però di inusitata correttezza, come qualche scrittore ha fatto,
pare decisamente eccessivo: il governo infatti fece di tutto per sostenere
i candidati ad esso favorevoli; mentre, malgrado cercasse di evitare
gravi episodi di violenza, non potè del tutto impedire che
si verificassero conflitti in Sicilia, in Emilia, nella Toscana, Lombardia
e Liguria. Però vista nella sua totalità, prescindendo
quindi dagli episodi di violenza citati, che ebbero carattere sporadico,
la campagna elettorale si svolse abbastanza correttamente e le elezioni
poteroro essere tenute liberamente, senza intimidazioni di sorta.
Abbiamo già visto il programma elettorale dei socialisti; abbiamo
visto anche il programma dei popolari; vediamo adesso il programma
dei liberali, che prima della guerra rappresentavano la stragrande
maggioranza dell'elettorato italiano. Il Partito liberale risultò
diviso tra due correnti: gli ex-interventisti da una parte, e gli
ex-neutralisti dall'altra. Questo partito era comunque agli occhi
degli italiani il maggior responsabile dell'intervento in guerra della
nazione. Esso poteva ancora considerarsi un grande partito, soprattutto
in quelle zone nelle quali le sue fortune erano legate alla presenza
di qualche prestigioso leader politico: ad esempio in Basilicata la
presenza del presidente del consiglio Nitti rendeva questo partito
particolarmente forte; in Campania l'emergere di una personalità
di grande spicco quale quella di Giovanni Amendola accentrava su di
esso grandi interessi; convergevano inoltre su di esso le simpatie
di tutta quella notevole massa di elettori, chiaramente giolittiani,
e che si stringevano ancora intorno al vecchio capo politico. Sostanzialmente
però la competizione elettorale verteva su un tema fondamentale:
l'elettorato doveva esprimere la sua approvazione alla classe politica,
che aveva voluto l'intervento in guerra, ovvero doveva esprimere la
propria approvazione a quella classe politica così detta neutralista,
che aveva cercato in tutti i modi di evitare che l'Italia venisse
coinvolta nella grande guerra. Il responso dell'elettorato fu ampiamente
favorevole ai neutralisti, e da ciò derivò inevitabilmente
un grande trionfo del Partito socialista, premiato per la sua incrollabile
avversione alla guerra; i socialisti invece interpretarono il voto
come adesione al programma massimalista, al quale si erano ispirati
nel corso della campagna elettorale. L'elezioni si tennero il 16 novembre.
Esse dimostrarono, al di là di ogni illazione, come l'elettorato
avesse premiato quelle liste i cui deputati erano stati neutralisti
oppure sostenitori della guerra a malincuore. Confrontando i risultati
elettorali delle prece-denti elezioni, tenutesi nel 1913, con quelle
del 1919, ci si rende conto del profondo mutamento verificatosi nel
Parlamento italiano con le nuove elezioni:
1) i liberali, i nazionalisti, i democratici, i radicali ed i riformisti,
che tutti insieme formavano la così detta coalizione giolittiana,
e che nel 19 13 potevano contare complessivamente 3.392.000 voti,
ne ottennero tutti insieme soltanto 1.779.000; di conseguenza i seggi
di questa coalizione, che in precedenza erano 410, si ridussero a
soli 193, con una perdita veramente spaventosa. Scomparvero improvvisamente
dalla scena politica leader di grande prestigio, quali Sonnino e Boselli,
mentre Salandra e Bis-solati furono eletti a stento con un margine
molto ristretto;
2) i socialisti invece videro più che raddoppiata la loro forza
elettorale, passando da 883.000 voti a ben 1.835.000, con un aumento
dei seggi da 52 a 156;
3) i popolari infine, che nel 1913 non avevano alcuna rappresentanza
in Parlamento e che assorbirono del tutto i cosiddetti cattolici,
che avevano soltanto 29 seggi e 302.000 voti nella precedente consultazione
elettorale, videro i loro voti salire ad 1.167.000, e poterono quindi
mandare in Parlamento una consistente forza di ben 100 deputati;
4) i restanti seggi furono divisi fra repubblicani, indipendenti e
combattenti. I fascisti, alla loro prima prova elettorale, presentarono
soltanto una lista a Milano; di essa facevano parte Benito Mussolini,
Marinetti, il direttore d'orchestra Arturo Toscanini e altri personaggi
dell'arditismo, del futurismo e di circoli intellettuali di varia
estrazione. Questa lista riuscì a raccogliere poco meno di
5.000 voti, non ottenendo di conseguenza nessun seggio, e dimostrando
in modo inequivocabile come ancora alla fine del 1919 il fascismo
non avesse alcun peso nella vita politica italiana. Le nuove elezioni
premiarono quindi i neutralisti. Le violenze, durante la campagna
elettorale precedente le elezioni, non furono tuttavia un'esclusiva
dei fascisti. Anche i socialisti, soprattutto contro i rappresentanti
e le sedi del Partito popolare, si abbandonarono a gravissime forme
d'intimidazione e violenza. "A Mantova venne preso a sassate
l'oratore popolare, che aveva sostenuto il contradittorio con un socialista;
a Foligno con chiave falsa fu aperta la sede del comitato elettorale
del Partito popolare e messa a soqquadro; a Nenni durante un comizio
socialista, fu sparato un colpo di rivoltella contro un popolare che
aveva chiesto il contraddittorio; a Ceregnano (Rovigo) fu impedito
all'oratore popolare di prendere la parola; a Serravalle Pistoiese
fu aggredito l'oratore popolare; gravi violenze furono commesse dai
socialisti nel corso di un comizio popolare a Civitavecchia. I socialisti
giustificavano tali manifestazioni d'intolleranza, attribuendo intendimenti
reazionari al Partito Popolare. Il risultato comunque più evidente
delle elezioni fu quello di ridimensionare drasticamente il vecchio
Partito liberale, e soprattutto di ridurre la vecchia maggioranza
giolittiana. Per quanto malfamata, per quanto fosse stata oggetto
di continui insulti, essa era stata sino ad allora una forza politica,
che aveva consentito ad importanti esponenti politici, quali ad esempio
Giolitti e Nitti, di dirigere la politica dello stato italiano, disponendo
di un'ampia base parlamentare. Questa maggioranza adesso scompariva;
a stento essa raggiungeva la metà della forza parlamentare,
per cui non poteva più da sola governare il Paese. Ma ciò
che maggiormente rendeva la situazione fluida ed insicura, era che
a questa maggioranza giolittiana, non si sostituì nessuna forza
politica omogenea in grado di ereditare il governo della nazione e
di provvedere quindi alla risoluzione di tutti gli urgenti ed improrogabili
problemi che si ponevano al Paese. Il Partito socialista infatti,
legato al suo programma massimalista, si rifiutava di collaborare,
come ripetutamente aveva proposto Turati, sia con la vecchia classe
liberale che con i popolari, accusati d'essere reazionari. Sicchè
quest'imponente forza elettorale rimase isolata e senza alcuna utilizzazione
parlamentare. Il Partito popolare dal suo canto preoccupato di non
apparire reazionario, non intendeva collaborare con la vecchia maggioranza
parlamentare giolittiana. Il Parlamento italiano in altri termini
non era in alcun modo in grado di assicurare uno stabile e forte governo
al Paese. Ecco quindi la nuova realtà italiana: i liberali
messi adesso in minoranza non erano più in grado di governare
da soli; era indispensabile che almeno uno dei due grandi partiti
di massa, cioè o il socialista o il popolare; concorressero
organicamente alla formazione del nuovo governo. Invece entrambi non
furono capaci di assumere responsabilità di governo dello Stato,
al fine di affrontare i gravi e molteplici problemi che si ponevano
impellenti: la ricostruzione della Nazione prostrata dalla "Grande
Guerra", il ristabilimento dell'ordine pubblico turbato dall'insubordinazione
dell'esercito e dalle continue violenze della piazza. Giustamente
Nitti si era reso conto dell'impellenza dei problemi aperti nella
Nazione, e ad essi si richiamava quando con oratoria purtroppo inascoltata,
indicava i problemi che si ponevano innanzi al Paese. Ormai non era
più il momento di fare il processo alla classe politica che
aveva voluto la guerra; né era giusto e generoso denigrare
la vittoria e il sacrificio, ch'essa era costata a milioni di combattenti;
le nuove mete d'Italia dovevano essere quelle della ricostruzione
economica della Nazione e del ristabilmento dell'ordine pubblico.
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Una pattuglia
del Nizza
Cavalleria
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