Nel
corso dello stesso mese di novembre, il Parlamento italiano approvò
definitivamente il Trattato di Rapallo. Quasi tutte le forze politiche
italiane si dimostrarono d'accordo con il Governo, e di conseguenza
non restava da far altro che fare accettare a D'annunzio gli accordi
italo-jugoslavi ed ottenere quindi che egli abbandonasse Fiume. A
ben pensare il Trattato costituiva un vero successo per D'Annunzio.
Tutto sommato Fiume era stata sottratta agli jugoslavi e di lì
a qualche anno sarebbe stata definitivamente unita all'Italia. Eppure
non fu così semplice costringere il "Comandante"
ad abbandonare la città di Fiume. In particolare ciò
che turbò molto la coscienza di D'Annunzio fu l'esistenza di
alcune clausole segrete tra il Governo italiano e quello jugoslavo.
Egli ne era stato informato segretamente da suòi amici, molto
vicini agli ambienti diplomatici italiani; temeva quindi che la città
di Fiume, alla quale sarebbe stato sottratto il porto Baross, si sarebbe
trovata in gravi difficoltà proprio a causa della concorrenza
diretta di questo porto a quello della città. D'Annunzio sperava
sempre di potere contare sull'aiuto dell'ammiraglio Millo, che sino
ad allora gli si era sempre dimostrato amico devoto. Ma in ciò
s'ingannava, perchè Mulo, posto innanzi alla necessità
di scegliere tra la sua devozione ed amicizia per il Poeta, e la fedeltà
giurata al Re, decise di non tradire e di conseguenza anch'egli si
apprestò ad abbandonare le zone della Dalmazia, che per il
Trattato di pace di Rapallo dovevano passare sotto governo jugoslavo.
Ai primi di dicembre contingenti di soldati italiani lasciarono Zara
per rimpatriare. La partenza di questi provocò tumulti in città.
Da una parte la comunità italiana che inveiva contro Mulo che
aveva lasciato partire i soldati, dall'altra parte la comunità
slava che approfittava dell'occasione per inveire contro gli italiani,
dando luogo a gravi disordini nella città di Zara. D'Annunzio
seppe dei disordini e della partenza dei soldati italiani, e comprese
allora che Millo non lo avrebbe ulteriormente seguito nella sua avventura
fiumana.In breve tempo D'Annunzio si trovò isolato: nessuno
sembrava più seguirlo, nè in Patria, nè a Fiume
stessa. In Italia tutti, compreso lo stesso Mussolini, si dichiararono
favorevoli al Trattato; a Fiume "il Consiglio dei Rettori di
Fiume e molti uomini politici non sospetti di scarso patriottismo
e di sentimenti "rinunciatari" lo consigliarono di accettare
il trattato, ma non furono ascoltati." Invano il Governo, preoccupato
del fatto che l'opinione pubblica italiana sembrava contraria a qualsiasi
atto di forza, tentò di raggiungere un accordo con la Reggenza
dannunziana. Invano inviati del ministro della Guerra Bonomi e degli
Esteri Sforza cercarono punti di contatto, che consentissero di giungere
allo sgombero pacifico della città. Alla fine fu chiara la
volontà di D'Annunzio di resistere da solo con i suoi legionari
sino alla fine, e di opporsi con la forza ad eventuali atti di forza
del Governo italiano. Il Governo quindi "si preparava ad una
eventuale azione di forza, dando facoltà al generale Caviglia,
quale comandante generale delle truppe della Venezia Giulia, di prendere
tutte le disposizioni e di adottare tutti i provvedimenti atti a ricondurre
alla normalità la questione di Fiume; veniva per questo assegnato
al generale un primo contingente di tre battaglioni di carabinieri,
e poste alle sue dipendenze le forze navali dell'alto Adriatico, comandate
dall'ammiraglio Simonetti." Non essendo riuscito 11 Caviglia
a concludere un accordo con D'Annunzio, il 30 novembre spedì
un ultimatum a D'Annunzio con il quale gli intimava entro il seguente
giorno 2 dicembre di abbandonare le isole di Arbe e Veglia e tutti
gli altri territori occupati, e di rientrare quindi entro i confini
dello Stato di Fiume, quali erano prima del giorno 10 novembre. Immaginando
quindi il Caviglia il rifiuto di D'Annunzio a qualsiasi forma di compromesso,
lo stesso giorno 30 emanò un proclama invitando tutte le truppe
legionarie a rientrare tra le fila delle truppe regolari, onde evitare
d'essere sottoposte a processo per alto tradimento per aver portato
le armi contro lo Stato. Tuttavia nè l'ultimatum di Caviglia,
nè il suo proclama sortirono l'effetto sperato. D'Annunzio
sembrò più che mai deciso a non cedere ed a combattere
sino alla fine. S'intensificarono comunque i contatti diplomatici,
cercando ancora il Governo una via d'uscita, che non fosse il ricorso
alla forza, alla difficile situazione. Così si ebbero contatti
continui tra emissari di Bonomi e di D'Annunzio: ma inutilmente. La
situazione già di per sé molto grave, finì col
diventare del tutto drammatica, quando si verificarono gravi episodi
d'indisciplina su alcune navi italiane, che tradirono, unendosi alle
forze danunziane. La corazzata Dante Alighieri si rifiutò d'abbandonare
il porto di Fiume; il caccia Bronzetti, la torpediniera 68 PN ed il
caccia Espero si posero agli ordini del "Comandante". A
tutto ciò si aggiunse la defezione di qualche piccolo reparto
di terra, sicchè il Governo temette che la scarsa fedeltà
delle truppe avrebbe compromesso del tutto la possibilità di
ottenere lo sgombero della città. Non era in discussione soltanto
il rispetto del Trattato di Rapallo, bensì lo stesso prestigio
del Governo, che avrebbe dovuto dimostrare di contare ancora qualcosa,
e di essere quindi in grado di domare la rivolta. Da questo momento
le trattative continuarono stentatamente: ci si rendeva conto che
si andava ormai verso la lotta fratricida. Ancora il giorno 14, rispondendo
ad una lettera, inviatagli da 80 senatori italiani, e dal patriota
triestino Attilio Hortis, D'Annunzio sintetizzava così le ragioni
del suo diniego a qualsiasi trattativa: "Fiume chiede che le
sia almeno lasciato Porto Sauro (cioè Porto Baross) ed il Delta;
ma Trumbic e Stoianovic rispondono che Porto Baross ed il Delta dell'Eneo
dovranno appartenere alla Jugoslavia, e che la Jugoslavia avrà
inoltre diritto di intervento nelle questioni dello Stato di Fiume,
dato che ne include quasi tutte le sue frontiere terrestri e tutte
le arterie economiche. Da parte dell'Italia nessuna risposta: silenzio
brutale." Il generale Caviglia, visto e considerato che le trattative
con D'Annunzio non procedevano in senso favorevole, decise già
il giorno 21 di procedere al "blocco effettivo per terra e per
mare" dello Stato di Fiume. Il Caviglia dettò quindi un
termine di 48 ore perchè navi e uomini lasciassero volontariamente
Fiume, rientrando entro il territorio nazionale. D'Annunzio rispose
al blocco, proclamando lo stato di guerra, e dimostrandosi quindi
con questo atto, più che mai deciso a combattere piuttosto
che a cedere. Il giorno 23, scaduto il termine concesso dall'ultimatum
di Caviglia, pochi uomini avevano abbandonato Fiume e nessuna nave.
La città era del tutto bloccata. D'Annunzio pensava che Caviglia
avrebbe continuato il blocco, senza giungere ad una vera e propria
azione di guerra. Ma, essendo stato intercettato un ordine del generale
Perrario con il quale si ordinava alle truppe di tenersi pronte ad
occupare Fiume per il giorno 24, egli comprese che ormai ci si avviava
verso la guerra fratricida, ch'egli aveva tanto paventato. Tuttavia
egli diede l'ordine di attenersi al concetto di difesa e non a quello
dell'attacco. I legionari si sarebbero difesi, se attaccati; ma non
avrebbero condotto nessuna azione offensiva contro i loro "fratelli".
Caviglia aveva affidato l'operazione per l'occupazione di Fiume al
generale Ferrano. Quest'ultimo riteneva che fosse possibile entrare
nella città con una semplice azione di polizia; pensava quindi
che pochi reparti di carabinieri sarebbero stati sufficienti per condurre
l'azione. Tuttavia, nel dubbio che venisse tentata dai legionari una
qualche resistenza armata, era stato predisposto l'impiego dell'esercito
con l'àppoggio delle artiglierie, sia di terra che quelle della
flotta, che ancorata al largo di Fiume, avrebbe potuto con facilità
intervenire.
All'alba del 24 dicembre, vigilia di Natale, le truppe della 45ma
divisione iniziarono ad avanzare in direzione di Fiume. Inizialmente
l'avanzata avvenne senza colpo ferire, perchè i legionari,
fedeli alla consegna di D'Annunzio di evitare nei limiti del possibile
di far fuoco sui loro fratelli, si ritirarono verso la linea fissata
per la resistenza. Essi quindi issarono grandi cartelli sui quali
era scritto: "Fratelli, se volete evitare la grande sciagura,
non oltrepassate quest6 limite. Se i vostri Capi vi accecano, il Dio
d'Italia v'illumini." In città frattanto si respirava
già l'atmosfera natalizia: negozi aperti, gente affaccendata
nelle ultime compere; sembrava incredibile a tutti che gl'italiani
attaccassero i loro fratelli di Fiume proprio alla vigiglia di Natale.
Ma alle ore 18 di quella vigilia di Natale, ebbe inizio l'attacco
delle truppe. Inizialmente esse, favorite dalla sorpresa, riuscirno
ad avanzare, però in breve tempo il valore delle truppe legionarie,
formate, non dimentichiamolo, per la maggior parte da arditi, riuscì
a bloccare gli avanzanti su una nuova linea. Invano D'Annunzio sperò
in quelle ore che gli italiani insorgessero per appoggiare Fiume:
ci fu solo un modesto tentativo in proposito a Trieste, ma altrove
regnò la massima calma. La Patria aveva abbandonato il Poeta.
A questo punto il generale Ferrario, d'accordo con Caviglia, decise
di sospendere le operazioni per il successivo giorno di Natale: essi
speravano che i fiumani si ribellassero a D'Annunzio, evitando quindi
altro spargimento di sangue: inoltre quel giorno sarebbe stato impiegato
a mettere in posizione le batterie delle artiglierie, per iniziare,
in caso di resistenza, il bombardamento. della città. L'attacco
riprese quindi all'alba del 26 dicembre. Ma malgrado l'appoggio delle
artiglierie, i legionari non mollarono la loro linea ed anzi in più
punti contrattaccarono con veemenza. "La situazione diveniva
tragicamente grottesca, data l'evidente impossibilità per il
comando dell'Esercito regolare di concludere rapidamente, con il solo
uso delle truppe di terra, quella che inizialmente era stata definita
una azione di polizia, ed a mezzogiorno il generale Caviglia dava
l'ordine all'ammiraglio Simonetti di aprire il fuoco contro il palazzo
del Comando e contro gli obiettivi militari della città."
Verso le ore 16 dello stessò giorno 26, l'Andrea Doria, che
già aveva colpito il cacciatorpediniere Espero, provocando
lo scoppio della Santa Barbara, si avvicinava a meno di un chilometro
dalla riva, e da li, con un tiro diretto, quindi molto preciso, colpiva
il palazzo del Comando. Diverse granate colpirono la facciata. Una
scoppiò sull'architrave della finestra dello studio di D'Annunzio,
provocandone il leggero ferimento, e provocando la morte di un sergente.
Invano si tentarono approcci tra il sindaco ed il comando delle truppe
italiane; poichè mancava la piena accettazione del Trattato
di Rapallo, Caviglia decise di continuare l'azione. Sicchè
ancora il seguente giorno 27 continuò il bombardamento della
città anche se a ritmo ridotto. A sera, vista l'impossibilità
di continuare la resistenza, e per evitare spargimento di sangue tra
la popolazione civile, essendosi il generale Ferrario rifiutato di
consentire lo sgombero delle donne, dei vecchi e dei bambini, si recarono
a parlamentare al Comando italiano il sindaco Gigante ed il capitano
Host-Venturi. Ma invano, perchè Ferrario si dimostrò
irremovibile. Concesse comunque una tregua sino alle ore 14 del giorno
seguente, dopo di che avrebbe iniziato il bombardamento sistematico,
anche con i grossi calibri, dell'intera città. Considerate
le ferme posizioni del Comando delle truppe regolari, il giorno 28
mattina si riunì il "Consiglio della Reggenza", per
decidere se cedere o meno alle intimazioni di Caviglia. Soltanto Grossich
dichiarò di accettare la resistenza e quindi il conseguente
bombardamento della città; di conseguenza D'Annunzio, verificata
la mancanza di appoggio da parte della cittadinanza, decise di abbandonare
il comando della città, mantenendo soltanto il comando dei
legionari di Ronchi. Ciò avrebbe permesso al governo provvisorio
della Reggenza, di cercare quella soluzione pacifica che evitasse
ulteriore spargimento di sangue. Avendo abbandonato il Comando di
Fiume, fu facile per il consiglio comunale cittadino raggiungere un
accordo con le truppe regolari italiane, accordo che venne firmato
ad Abbazia il giorno 31 dicembre. Il 2 gennaio D'Annunzio con il suo
esercito si recò al cimitero a rendere omaggio ai caduti di
quella breve guerra civile: la lotta era costata una cinquantina di
morti tra le due parti. Ancora una volta l'atmosfera raggiunse momenti
di vibrante commozione. Infine il giorno 18 gennaio D'Annunzio si
accomiatò dalla cittadinanza fiumana. Salutato nell'aula del
Consiglio da Antonio Grossich, ricevette dall'intera città
una nuova ed ultima manifestazione di delirante affetto. Ma a prescindere
dal valore dell'impresa fiumana, ciò che a noi maggiormente
interessa in questa sede, è sottolineare come l'impresa di
D'Annunzio abbia fatto scuola per la successiva marcia su Roma e per
il rituale fascista. D'Annunzio, certo neppure conscio di manipolare
le masse con grande maestria, poichè di certo egli agiva così
come sentiva, senza secondi scopi reconditi, sperimentò tutto
quanto poi il fascismo farà suo: il discorso dal balcone, il
saluto romano, il grido "eia, eia, alalà! ", il dialogo
drammatico con la folla in delirio, il ricorso a simboli religiosi,
ai martiri ed alle reliquie; tuttavia la somiglianza con il governo
di Mussolini è tutto e soltanto qui. La Reggenza del Carnaro
fu infatti una democrazia avanzatissima; la costituzione, redatta
da De Ambris, stabiliva infatti la eguaglianza totale tra uomini e
donne, la tolleranza di ogni forma religiosa e quindi anche dell'atei-smo,
un perfetto sistema di sicurezza sociale, la gestione del potere tramite
un sistema di democrazia diretta. Ben altro quindi da quanto Mussolini
realizzò in seguito nella "sua Italia".
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Porto Barros
lo sbarramento
degli arditi
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