Discorso
alle camicie nere perugine il 28 ottobre 1923
Popolo di Perugia! Popolo dell'Umbria tutta!
Non ti stupire se io comincio il mio discorso con un atto di contrizione.
Non mi vergogno di dirti che questa è la prima volta nella
mia vita che vengo nella tua mirabile e bellissima città,
la quale mi è balzata incontro con la sua cordialità
profonda, mentre il suo cielo purissimo, la sua aria trasparente,
il suo orizzonte chiaro, dolce e quasi senza confine, mi spiegano
come questa terra sia quella che ha celebrato a volta a volta
l'eroismo e la santità. Questa è l'ultima tappa
del viaggio di celebrazione della marcia su Roma. Abbiamo ripercorso
in pochi giorni il cammino di molti anni e forse di molti secoli.
In questa tappa, nella mia duplice qualità di capo del
Governo e di capo del fascismo, voglio porgere il mio saluto,
il ringraziamento fraterno a coloro che lavorarono con me in quella
che fu un'ora suprema nella storia della nazione. Parlo degli
uomini del Quadrumvirato. E comincio da te, generale Emilio De
Bono, guerriero intrepido di molti anni e di molte battaglie,
col petto onusto dei segni del valore, giovane malgrado la lieve
neve che incornicia il tuo volto maschio e fiero. Chiamo te, Cesare
De Vecchi, combattente decoratissimo, mutilato della grande guerra
e mutilato anche della nostra guerra, solido e fedele come le
montagne del tuo vecchio Piemonte. Parlo a te, Italo Balbo, uomo
della mia terra, vorrei quasi dire della mia razza se io non mi
sentissi intimamente, vorrei dire ferocemente, uomo di una sola
razza: la razza italiana. Tu, giovane, hai combattuto brillantemente
nella nostra santa guerra di redenzione e sei stato insieme coi
tuoi compagni uno di coloro che ha più potentemente contribuito
a trasformare il movimento di squadre in un movimento di riscossa
impetuosa e invincibile. Né ultimo tu sei, o Michele Bianchi,
uomo della lunga e tempestosa vigilia, uomo che vidi con me il
23 marzo 1919 a Milano, quando in numero esattamente di cinquantadue,
dico cinquantadue, ci riunimmo a giurare che la lotta che noi
avevamo intrapresa non poteva finire se non con una trionfale
vittoria. E dopo i capi del Quadrumvirato io voglio anche ricordare
quelli che condussero le colonne verso Roma. Erano fra di loro
dei generali come Ceccherini, come Fara, come Zamboni, uomini
e nomi ben noti a tutto l'Esercito italiano. E vi erano anche
i comandanti delle nostre squadre. Voglio ricordare anche tutti
i gregari, i morti e i superstiti e fra i primi quel vostro perugino
che morì sulla soglia di Roma. Voglio ricordare tutti quelli
che ad un dato momento dimenticarono famiglia, interessi, amori,
e non ascoltarono che il grido che prorompeva dal mio e dai lord
animi: il grido di "Roma o morte!". (Ovazione entusiastica
della folla. Si grida ripetutamente: "Roma! Roma!").
Chi poteva resistere alla nostra marcia? Noi preparammo tutti
gli eventi, con tutte le sagge regole della strategia militare
e politica. La nostra lotta non era diretta contro l'Esercito,
al quale non cessammo mai di tributare l'attestato della nostra
più profonda e incommensurabile devozione. (Grida di: "Viva
l'Esercito!"). Non era diretta contro la monarchia, la quale
ha la tradizione della nostra razza e della nostra nazione. (Applausi
e grida di: "Viva il re!"). Non era diretta contro le
forze armate della Polizia, soprattutto non era diretta contro
i fedeli della Benemerita, coi quali noi avevamo in molte località
combattuto assieme la buona battaglia contro gli sciagurati dell'antinazione.
Non era nemmeno la nostra battaglia diretta contro il popolo lavoratore;
questo popolo che per qualche tempo è stato ingannato da
una demagogia stupida e suicida, questo popolo lavoratore in quei
giorni non interruppe il ritmo solerte e quotidiano della sua
fatica. Assisteva simpatizzando al nostro movimento, perché
sentiva oscuramente, istintivamente che sbarazzava il terreno
da una classe di politicanti imbelli. Noi facevamo anche l'interesse
del popolo che lavora. Contro chi dunque abbiamo noi diretto la
nostra impetuosa battaglia? Da venti anni, forse da trenta anni,
la classe politica italiana andava sempre più corrompendosi
e degenerando. Simbolo della nostra vita e marchio della nostra
vergogna era diventato il parlamentarismo con tutto ciò
che di stupido e demoralizzante questo nome significa. Non c'era
un Governo; c'erano degli uomini sottoposti continuamente ai capricci
della cosiddetta maggioranza ministeriale. Chi dominava erano
i capi della burocrazia anonima, i quali rappresentavano l'unica
continuità della nostra vita nazionale. Il popolo, quando
poteva leggere i cosiddetti resoconti parlamentari ed assistere
al cosiddetto incrocio delle ingiurie più plateali fra
i cosiddetti rappresentanti della nazione, sentiva lo schifo che
gli saliva alla gola. Era diretta la nostra battaglia soprattutto
contro una mentalità di rinuncia, uno spirito sempre più
pronto a sfuggire che ad accettare tutte le responsabilità.
Era diretta contro il mal costume politico-parlamentare, contro
la licenza che profanava il sacro nome della libertà. E
chi ci poteva resistere? Forse i pallidi uomini che in quel momento
rappresentavano il Governo? Roma in quei giorni mi dava l'idea
di Bisanzio: discutevano se dovevano o non applicare il loro ridicolo
decreto di stato d'assedio, mentre le nostre colonne formidabili
ed inarrestabili avevano già circondato la capitale. Non
costoro potevano coi loro reticolati, con le loro mitragliatrici,
che al momento opportuno non avrebbero sparato (Applausi), non
costoro potevano impedire a noi di toccare la mèta. E meno
ancora i vecchi partiti. Non certamente i partiti della democrazia,
frammentari, segmentati all'infinito; non certamente i partiti
del cosiddetto sovversivismo che noi abbiamo inesorabilmente spazzato
via dalla scena politica italiana e nemmeno il partito del dopoguerra,
il cosiddetto Partito Popolare Italiano, che ha rivaleggiato col
socialismo quando si trattava di fare della demagogia per mercato
elettorale. Ora tutti questi partiti dispersi e mortificati vivono
della nostra longanimità. Né noi, o cittadini, o
camicie nere, intendiamo di sacrificarli. La nostra è una
rivoluzione originale e grandiosa, che non ha fatto i tribunali
straordinari e non ha fucilato nessuno. Non è necessario
del resto fare una rivoluzione secondo gli stampi antichi. Ci
deve essere una originalità nostra, fascista e latina.
Del resto il consenso del popolo è immenso. La forza delle
nostre legioni è intatta, per cui se qualche uomo o qualche
partito pretendesse di ritornare ai tempi che furono, quell'uomo
e quel partito saranno inesorabilmente puniti. Camicie nere! Cittadini!
Noi non possiamo, non vogliamo più tornare al tempo in
cui si elargiva una triplice amnistia ai disertori, mentre i mutilati
non potevano circolare per le strade d'Italia. (Applausi). Né
si deve più tornare al tempo in cui i partiti e la cosiddetta
democrazia affogavano il popolo nel mare delle loro interminabili
ciarle. Meno ancora si può tornare al tempo in cui era
possibile mistificare le masse lavoratrici mettendole contro la
patria o fuori della patria. Ebbene, sia detto qui, in questa
piazza meravigliosa e in quest'ora solenne: le sorti del popolo
lavoratore sono intimamente legate alle sorti della nazione, perché
il popolo lavoratore è parte di questa nazione. Se la nazione
grandeggia, anche il popolo diventa grande e ricco; se la nazione
perisce, anche il popolo muore. Non è senza un profondo
disgusto che noi rievochiamo i tempi del dopoguerra. L'Esercito
che tornava dalla battaglia di Vittorio veneto non ebbe la grande,
la meritata soddisfazione di occupare Vienna o Budapest. Non già
per esercitarvi atti di prepotenza, perché i nostri soldati
dovunque sono stati hanno lasciato un buon ricordo incancellabile,
ma perché era giusto che i nostri battaglioni vittoriosi
sfilassero nelle città che erano state capitali del nemico
battuto. Giacché questo non si osò di fare perché
il profeta di oltre oceano andava inseguendo le utopie dei suoi
quattordici punti, almeno fosse stato concesso ai nostri reggimenti
vittoriosi di sfilare per le strade di Roma imperiale perché
avessero avuto nel tripudio di tutto il popolo e di tutta la nazione
il senso augusto della nostra vittoria! Nemmeno questo si volle!
Ora questi tempi sono passati. Taluni politicanti che non si muovono
da Roma, che di questa città fanno centro della loro vita
e pretenderebbero fare centro dell'Italia il palazzo di Montecitorio
girano poco. Non si muovono da Roma. Se avessero l'abitudine di
circolare in mezzo alle moltitudini italiane, si convincerebbero
che è ora di deporre le loro speranze, si convincerebbero
che non c'è più niente da fare, si convincerebbero
di una realtà che pareva fino a ieri la più stupenda
ed irraggiungibile delle utopie. Questa realtà, o cittadini,
è. Il capo del Governo gira tranquillamente in mezzo alle
moltitudini italiane ed ha da loro attestazioni di consenso sempre
più grande. Chi oserà dire, sia pure l'avversario
in malafede dichiarata, chi oserà dire che il Governo di
Mussolini poggia soltanto sopra la forza di un Partito? E non
era assurdo che si pretendesse da taluni di dare alla celebrazione
della marcia su Roma il carattere esclusivo di una manifestazione
di Partito? Non è una manifestazione di Partito, non è
solo il fascismo che celebra la marcia su Roma. Sono accanto a
noi mutilati e combattenti che rappresentano, lo ripeto, l'aristocrazia
della nazione. E accanto a noi la massa imponente dei nostri operai
dei campi, dell'industria, dei sindacati, delle nostre corporazioni.
E soprattutto è con noi la moltitudine del popolo italiano,
senza distinzione di età, di classi, di categorie: tutto
il popolo italiano nel significato divino e potente di questa
parola; il popolo italiano che da un anno a questa parte dà
uno spettacolo superbo di disciplina e dimostra che la ciurma
era sana. Solo i piloti erano deficenti e mancanti. E, o cittadini,
non si poteva pensare di assumere la somma delle responsabilità
senza prendere Roma. Roma è veramente il segno fatale della
nostra stirpe, Roma non pub essere senza l'Italia, ma l'Italia
non può essere senza Roma. Il nostro destino di popolo
ci inchioda alla storia di Roma. Noi prendemmo Roma per purificare,
redimere ed innalzare l'Italia; noi terremo Roma solidamente fino
a che il nostro compito non sarà totalmente compiuto. E
state tranquilli, o cittadini, state tranquilli, o voi legionari
delle camicie nere, che l'opera sarà continuata. Sarà
continuata con una tenacia fredda, oserei dire matematica e scientifica.
Noi marceremo con passo sicuro e romano verso le mète infallibili.
Nessuna forza ci potrà arrestare, perché noi non
rappresentiamo un partito o una dottrina o un semplice programma:
noi rappresentiamo ben più di tutto ciò. Portiamo
nello spirito il sogno che fermenta ancora nel nostro animo: noi
vogliamo forgiare la grande, la superba, la maestosa Italia del
nostro sogno, dei nostri poeti, dei nostri guerrieri, dei nostri
martiri. Qualche volta io vedo questa Italia nella sua singolare,
divina espressione geografica: la vedo costellata delle sue città
meravigliose, la vedo recinta dal suo quadruplice mare, la vedo
popolata di un popolo sempre più numeroso, laborioso e
gagliardo, che cerca le strade della sua espansione nel mondo.
Salutate questa Italia, questa divina nostra terra protetta da
tutti gli Iddii. Salutatela voi, o uomini dalla piena virilità;
salutatela voi, vecchi che avete vissuto e avete bene spesa la
vostra vita; salutatela voi, o donne che portate nel grembo il
mistero delle generazioni che furono e di quelle che saranno;
salutatela voi. o adolescenti che vi affacciate alla vita con
occhi e con animo puro; salutiamola insieme e gridiamo
Viva, Viva, Viva l'Italia!
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