DISCORSO
DI BOLOGNA
Prefazione
Questo discorso fu pronunciato a Bologna, al Teatro Comunale,
il 3 Aprile 1921. Anche questo è un discorso sintetico,
in cui appaiono le basi essenziali e le idee-forza del Fascismo.
Con esso, al 1° Maggio d'infausta memoria socialista si opponeva
il 21 Aprile fascista, data del Natale di Roma, consacrato al
Lavoro e alla Nazione. Fra le persone citate nel discorso, giovi
rammentare che Giulio Giordani fu assassinato in Bologna da un'aggressione
rossa nel Palazzo d'Accursio, in pieno consiglio comunale. L'avv.
Grandi è il futuro Ministro degli Affari Esteri; i nomi
di Bucco, Zanardi e Bentini, note personalità del socialismo,
sono presi ad esponente di tutta una categoria di uomini che,
pur facendo i politicanti rossi, non avevano neppure il coraggio
di una possibile rivoluzione.
Fascisti
dell'Emilia e della Romagna ! Cittadini bolognesi ! Tutte le circostanze,
a cominciare dalle accoglienze di ieri sera, dai canti di questa
notte, a questo magnifico mareggiare di teste, al saluto che io
accettai con trepida venerazione, dalla vedova del nostro indimenticabile
Giulio Giordani, (applausi) alla presenza in un palco di due donne
eroiche, vedove di eroi grandissimi: parlo di Battisti e di Venezian
(applausi); tutto ciò potrebbe trascinarmi sopra un terreno
dell'eloquenza che non è la mia. Ma io credo, io sono quasi
certo che voi non vi attendete da me un discorso retorico, ma
vi attendete da me un discorso duro ed aspro, come è nel
mio costume. Ed allora noi ci parleremo schiettamente, fascisticamente.
Io ringrazio l'avv. Grandi che mi ha presentato a voi con parole
troppo lusinghiere: io le accetto e credo di non commettere un
peccato di orgoglio. Potrei dirvi socraticamente che se ognuno
deve conoscere se stesso, anche io conosco e devo conoscere me
stesso. Come è nato questo fascismo, attorno al quale è
così vasto strepito di passioni, di simpatie, di odi, di
rancori e di incomprensione? Non è nato soltanto dalla
mia mente o dal mio cuore: non è nato soltanto da quella
riunione che nel 1919 noi tenemmo in una piccola sala di Milano.
E' nato da un profondo, perenne bisogno di questa nostra stirpe
ariana e mediterranea che ad un dato momento si è sentita
minacciata nelle ragioni essenziali della esistenza di una tragica
follia e da una favola mitica che oggi crolla a pezzi nel luogo
stesso ove è nata. Noi sentimmo allora, noi che non eravamo
i maddaleni pentiti; noi che avevamo il coraggio di esaltare sempre
l'intervento e le ragioni delle giornate del 1915; noi che non
ci vergognavamo di avere sbaragliato l'Austria sul Piave e di
averla poi mandata in frantumi a Vittorio Veneto; noi che volemmo
una pace vittoriosa, noi sentimmo subito, appena cessata l'esaltazione
della vittoria, che il nostro compito non era finito. Difatti
ad ogni volgere di stagione si dice che il mio compito e il compito
delle forze che mi seguono, sia finito. Nel Maggio 1915, quando
i fasci di azione rivoluzionaria avevano spazzato da tutte le
strade, da tutte le piazze e le vie d'Italia, perfino nei più
piccoli borghi d'Italia il neutralismo parecchista, si disse:
Mussolini non ha più niente da dire alla nazione. Ma quando
vennero le tragiche e tristi giornate di Caporetto, quando Milano
era grigia e terrea perché sentiva che se gli austriaci
passavano e venivano nella città delle cinque giornate
sarebbe stata la fine dell'Italia tutta, allora noi sentimmo di
avere ancora una parola di dire. E dopo la vittoria, quando sorse
la scuola della rinunzia più o meno democratica, che intendeva
amputare la vittoria, noi fascisti avemmo il supremo spregiudicato
coraggio di dirci imperialisti ed antirinunciatari. Fu quella
la prima battaglia che demmo nel Teatro della Scala nel Gennaio
1919. Ma come? Avevamo vinto, avevamo vinto noi per tutti, avevamo
sacrificato il fior fiore della nostra gioventù, e poi
si veniva a noi coi conti degli usurai, degli strozzini. Ci si
contendevano i termini sacri della patria, e c'erano in Italia
dei democratici, la cui democrazia consiste nel fare l'imperialismo
per gli altri e nel rinnegarlo per noi, che ci lanciavano questa
stolta accusa, semplicemente perché intendevamo che il
confine d'Italia al nord dovesse essere il Brennero, dove sarà
fin che ci sarà il sangue di un italiano in Italia. Intendevamo
che il confine orientale fosse al Nevoso, perché la' sono
i naturali, giusti confini della Patria e perché non eravamo
sordi alla passione di Fiume e perché portavamo nel cuore
lo spasimo del fratelli della Dalmazia, perché infine sentivamo
vivi e vitali quei vincoli di razza che non ci lega soltanto agli
italiani da Zara a Ragusa ed a Cattaro, ma che ci lega anche agli
italiani del Canton Ticino, anche a quegli italiani che non vogliono
più esserlo, a quelli di Corsica, a quelli che sono al
di la' dell'Oceano, a questa grande famiglia di 50 milioni di
uomini che noi vogliamo unificare in uno stesso orgoglio di razza.
Si notavano già le prime avvisaglie della offensiva pussista.
Milano il 16 Febbraio assistette, fra lo sgomento e il terrore
di una borghesia infiacchita e trepidante, ad una sfilata di 20
mila bolscevichi i quali, dopo aver inneggiato a Lenin dall'alto
dei torrioni del castello, dissero che la rivoluzione bolscevica
era imminente. Allora io uscii all'indomani con un articolo che
fece una certa impressione anche ad alcuni amici. Era intitolato:"Contro
il ritorno della bestia trionfante". Era un articolo in cui
si diceva: noi siamo disposti a convertire le piazze delle città
d'Italia in tante trincee munite di reticolati per vincere la
nostra battaglia, per dare l'ultima battaglia contro questo nemico
interno. E la battaglia disfattista iniziatasi con quella parata
continuò per tutta l'estate quando fu rimestata fino alla
nausea quella inchiesta sul disastro di Caporetto che un ministro
infame, infamabile, da infamarsi aveva dato in pasto alla esasperazione
ed ai giusti dolori di gran parte del popolo italiano. Anche allora
noi fascisti avemmo il coraggio di difendere certe azioni che
col misurino della morale corrente non sono forse difendibili.
Ma, o signori, la guerra è come la rivoluzione: si accetta
in blocco: non si può scendere al dettaglio: non si può
e non si deve. Ma intanto questa campagna aveva le sue risultanze
elettorali. Un milione e 850.000 elettori misero nell'urna la
scheda con la falce e il martello: 156 deputati alla Camera. Pareva
imminente la catastrofe. Io fui ripescato suicida nelle acque
niente affatto limpide del vecchio Naviglio. Ma si dimenticava
una cosa: si dimenticava il mio spirito tenacissimo e la mia volontà
qualche volta indomabile. Io, tutto orgoglioso del miei quattromila
voti, e chi mi ha visto in quei giorni sa con quanta disinvoltura
accettassi questo responso elettorale, dissi: la battaglia continua!
Perché io credevo fermamente che giorno sarebbe venuto
in cui gli italiani si sarebbero vergognati delle elezioni del
16 Novembre, giorno sarebbe venuto in cui gli italiani non avrebbero
più eletto in due città quell'ignobile disertore
che io in questo momento non voglio nominare. Tanto è vero
che costui oggi essendo incapace di vivere nel dramma scende nella
farsa e dopo avere disprezzato la guardia regia chiede a quella
divisa la impunità e la salvezza. Ma ancora non è
finito l'avvento di questo fascismo, di questo movimento straripante,
di questo movimento giovane, ardimentoso ed eroico. Io solo qualche
volta, io che rivendico la paternità di questa mia creatura
così traboccante di vita, io posso qualche volta sentire
che il movimento ha già straripato dai modesti confini
che gli avevo assegnato. Infine noi fascisti abbiamo un programma
ben chiaro: noi dobbiamo procedere innanzi preceduti da una colonna
di fuoco, perché ci si calunniava e non ci si voleva comprendere.
E per quanto si possa deplorare la violenza, è evidente
che noi per imporre le nostre idee ai cervelli dovevamo a suon
di randellate toccare i crani refrattari. Ma noi non facciamo
della violenza una scuola, un sistema o peggio ancora una estetica.
Noi siamo violenti tutte le volte che è necessario esserlo.
Ma vi dico subito che bisogna conservare alla violenza necessaria
del fascismo una linea, uno stile nettamente aristocratico o se
meglio vi piace nettamente chirurgico. Le nostre spedizioni punitive,
tutte quelle violenze che occupano le cronache dei giornali, devono
avere sempre il carattere di una giusta ritorsione e di una legittima
rappresaglia. Perché noi siamo i primi a riconoscere che
è triste dopo avere combattuto contro i nemici di fuori
combattere ora contro i nemici di dentro che vogliono o non vogliono
sono italiani anch'essi. Ma è necessario, e fin che sarà
necessario assolveremo al nostro compito in questa dura ingrata
fatica. Ora i democratici, i repubblicani, i socialisti ci muovono
accuse di diverso genere. I socialisti fino a ieri hanno detto
che siamo venduti ai pescicani o all'agraria. Non ci sarebbero
pescicani sufficienti in Italia per sovvenzionare un movimento
come il nostro e d'altra parte vi devo dire che sarebbero pescicani
piuttosto stupidi perché fin dal Marzo 1919 noi nei postulati
fascisti abbiamo messo dei provvedimenti fiscali assai gravi e
che sono in ogni caso antipescecaneschi. Le altre accuse che ci
da la democrazia sono ridicole, le accuse che ci fanno i repubblicani
altrettanto. Io non mi spiego come dei repubblicani possano essere
contrari ad un movimento che è tendenzialmente repubblicano.
Io comprenderei che fossero contrari ad un movimento tendenzialmente
monarchico. Ci si dice: voi non avete pregiudiziali. Non ne abbiamo
ed è nostro vanto non averne. Ma voi dovete spiegarvi il
fenomeno dell'ira e della incomprensione dei socialisti. I socialisti
avevano in Italia costituito uno stato nello Stato. Se questo
nuovo stato fosse stato più liberale, più moderno,
più vicino all'antico, niente in contrario. Ma questo stato,
e voi lo sapete per esperienza diretta, era uno stato più
tirannico, più illiberale, più camorrista del vecchio,
per cui questa che noi compiamo oggi è una rivoluzione
che spezza lo stato bolscevico nell'attesa di fare conti con lo
stato liberale che rimane. C'è chi pensa che la crisi socialista
sia soltanto una crisi di uomini, di questi piccoli uomini che
voi conoscete, i Bucco, i Zanardi, i Bentini e simile tritume
umano; ma la crisi è più profonda, cari amici, è
un tracollo di tutti i valori. Non è soltanto una fuga
più o meno ignobile di uomini perché fra tutte le
cose assurde c'è stata questa: di battezzare il socialismo
come scientifico. Ora di scientifico non c'è niente al
mondo. La scienza ci spiega il come dei fenomeni, ma non ci spiega
anche il perché di essi. Ora se non c'è niente di
scientifico in quelle che si chiamano le scienze esatte, pensate
se non era assurdo, se non era grottesco gabellare per scientifico
un movimento vasto, incerto, oscuro, sotterraneo come è
stato il movimento socialista il quale ha avuto una funzione utile
in un primo tempo, quando si è diretto a queste plebi oppresse
e le ha fatte scattare verso nuove forme di vita. Voi converrete
con me che non si torna indietro. Non si deve fare del contrabbando
stolto, reazionario o conservatore sotto il gagliardetto del fascismo.
Non si può pensare a strappare alle masse operaie le conquiste
che hanno ottenuto con sacrifici. Noi siamo i primi a riconoscere
che una legge dello Stato deve dare le otto ore di lavoro e che
ci deve essere una legislazione sociale rispondente alle esigenze
dei tempi nuovi. E ciò non perché riconosciamo la
maestà di S.M. il proletariato. Noi partiamo da un altro
punto di vista. Ed è questo: che non ci può essere
una grande nazione capace di grandezza attuale e potenziale se
le masse lavoratrici sono costrette ad un regime di abbrutimento.
E' necessario quindi che attraverso ad una predicazione e ad una
pratica che io chiamerei mazziniana, la quale concilii e debba
conciliare il diritto col dovere, è necessario che questa
massa enorme di diecine di milioni di gente che lavora, che questa
enorme massa sia portata sempre più ad un livello superiore
di vita. E' stolto ed assurdo dipingerci come nemici della classe
lavoratrice e laboriosa. Noi ci sentiamo fratelli in ispirito
con coloro che lavorano: Ma non facciamo distinzioni assurde,
ma non mettiamo al primo piano il callo, specie se è al
cervello. Noi non mettiamo sugli altari la nuova divinità
del lavoratore manuale. Per noi tutti lavorano: anche l'astronomo
che sta nella sua specula a consultare la traiettoria delle stelle
lavora, anche il giurista, l'archeologo, lo studioso di religioni,
anche l'artista lavora, quando accresce il patrimonio dei beni
spirituali che sono a disposizione del genere umano: lavora anche
il minatore, il marinaio, il contadino. Noi vogliamo appunto che
tutti i lavori si compendino e si integrino a vicenda: vogliamo
che tra spirito e materia, fra cervello e braccio si realizzi
la comunione, la solidarietà della stirpe. Ed allora questo
fascismo è la ventata di tutte le eresie che batte alle
porte di tutte le chiese. E dice ai vecchi sacerdoti più
o meno piagnoni: Andatevene da questi tempi che minacciano rovina,
perché la nostra eresia trionfante è destinata a
portare la luce in tutti i cervelli, a tutti gli animi. E diciamo
a tutti: piccoli e grandi uomini della scena politica nazionale,
diciamo fate largo che passa la giovinezza d'Italia che vuole
imporre la sua fede e la sua passione. E se voi non farete spontaneamente
largo, voi sarete travolti dalla nostra universale spedizione
punitiva che raccoglierà in un fascio gli spiriti liberi
della nazione italiana. Siamo dinanzi ad un fatto che è
il fatto elettorale. Essendo la camera vecchia e peggio che vecchia,
fradicia ed imputridita, essendo tutti i protagonisti di questa
semitragedia degli uomini usati ed abusati, stanchi e peggio ancora
stracchi, si impone la nuova consultazione elettorale. Ebbene,
non sentite voi che se le elezioni del 1919 furono disfattiste
e misianesche, le elezioni del 1921 saranno nettamente fasciste?
Non sentite voi che il timone dello Stato non ritornerà
più ai vecchi uomini della vecchia Italia: nè a
Salandra, nè a Sonnino, nè al lacrimoso Orlando,
nè al porcino Nitti? Non sentite voi che il timone passa
per un trapasso spontaneo da Giovanni Giolitti, l'uomo del parecchio
neutralista, del 1915 a Gabriele D'Annunzio che è un uomo
nuovo? Questi vostri applausi dicono molte cose: e disperdono
equivoci che sono già dispersi. Ho ricevuto oggi un messaggio
in base al quale posso affermare sinceramente che il dissidio
creato più o meno ad arte fra quelli che hanno difeso Fiume
- e noi tributeremo sempre loro l'omaggio della nostra riconoscenza
- e noi che la difendemmo all'interno, non ha ragione di essere.
E Gabriele D'Annunzio porrà fine a questo dissidio che
più che da legionari partiva da certi politicanti che forse
non erano neppure a Fiume quando a Fiume ci si batteva sul serio.
E credo di aver detto a sufficienza perché tutti mi comprendano.
Altro elemento di vita del fascismo è l'orgoglio della
nostra italianità. A questo proposito sono lieto di annunziarvi
che abbiamo già pensato alla giornata fascista: se i socialisti
hanno il 1° Maggio, se i popolari hanno il 15 Maggio, se altri
partiti di altro colore hanno altre giornate, noi fascisti ne
avremo una: ed è il Natale di Roma. il 21 Aprile. In quel
giorno noi, nel segno di Roma Eterna, nel segno di quella città
che ha dato due civiltà al mondo e darà la terza,
noi ci riconosceremo e le legioni regionali sfileranno col nostro
ordine che non è militaresco e nemmeno tedesco, ma semplicemente
romano. Noi anche così abbiamo abolito e tendiamo ad abolire
il gregge, la processione: noi aboliamo tutto ciò e sostituiamo
a queste forme di manifestazione passatiste la nostra marcia che
impone un controllo individuale ad ognuno, che impone a tutti
un ordine ed una disciplina. Perché noi vogliamo appunto
instaurare una solida disciplina nazionale, perché pensiamo
che senza questa disciplina l'Italia non può divenire la
nazione mediterranea e mondiale che è nei nostri sogni.
E quelli che ci rimproverano di marciare alla tedesca, devono
pensare che non siamo noi che copiamo i tedeschi, ma sono questi
che copiavano e copiano i romani, per cui siamo noi che ritorniamo
alle origini, che ritorniamo al nostro stile romano, latino e
mediterraneo. E non abbiamo pregiudiziali: non le abbiamo perché
non siamo una chiesa: siamo un movimento. Non siamo un partito:
siamo una palestra di uomini liberi. Quando uno è stufo
di essere fascista ha venti botteghe e venti chiese cui battere
alla porta, per domandare ospitalità. Non abbiamo nemmeno
istituti: li riteniamo superflui. Il nostro è un esercito
che si riconosce dalla sua passione e dalla disciplina volontaria:
che si riconosce soprattutto per ritenersi non guardia di un partito
o di una fazione, ma soltanto guardia della nazione. Ci riconosciamo
soprattutto dall'amore che sentiamo per l'Italia, per l'Italia
resa e raffigurata nella sua storia, nella sua civiltà
e raffigurata anche nella sua struttura geografica ed umana. Ieri
mentre il treno mi portava a Bologna, io mi sentivo veramente
legato con le cose e con gli uomini, mi sentivo legato a questa
terra, mi sentivo parte infinitesimale di quel magnifico fiume
che corre dalle Alpi all'Adriatico, mi riconoscevo fratello nei
contadini, che avevano il gesto sacro e grave di colui che lavora
la terra; mi riconoscevo nel cielo azzurro che suscitava la mia
inestinguibile passione del volo, mi riconoscevo in tutti gli
aspetti della natura e degli uomini. Ed allora una preghiera profonda
saliva dal mio cuore. E' la preghiera che tutti gli italiani dovrebbero
recitare quando le aurore incendiano il cielo o quando i crepuscoli
obnubilano la terra. Noi italiani del secolo XX, noi che abbiamo
veduto la grande tragedia del compimento nazionale, noi che portiamo
nel profondo nel nostro animo il ricordo di tutti i nostri morti,
che sono la nostra religione, noi, o cittadini d'Italia, facciamo
un solo giuramento, un solo proposito: vogliamo essere gli artefici
modesti, ma tenaci delle sue fortune presenti e avvenire.
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