Discorso
all'assemblea del Consiglio Naz. delle Corporazioni - 14 novembre
1933
L'applauso col quale ieri sera avete accolto la lettura della
mia dichiarazione mi ha fatto domandare stamane se valeva la pena
di fare un discorso per illustrare un documento che è andato
direttamente alle vostre intelligenze, ha interpretato le vostre
convinzioni ed ha toccato la vostra sensibilità rivoluzionaria.
Tuttavia può interessare di sapere attraverso quale ordine
di meditazione, di pensiero, io sia giunto alla formulazione della
dichiarazione di ieri sera. Ma prima di tutto voglio fare un elogio
di questa Assemblea e compiacermi delle discussioni che si sono
svolte. Solo dei deficienti possono stupirsi che si siano determinate
delle divergenze e che siano apparse delle sfumature. Tutto questo
è inevitabile: vorrei dire necessario. Armonia è
armonia, la cacofonia è un'altra cosa. D'altra parte discutendosi
di un problema così delicato come è l'attuale, è
perfettamente logico ed inevitabile che ognuno porti non soltanto
la sua preparazione dottrinale, non soltanto il suo stato d'animo,
ma anche il suo temperamento personale. Il più astratto
dei filosofi, il più trascendente dei metafisici non può
del tutto ignorare né prescindere da quello che è
il suo temperamento personale. Ricorderete che il 16 ottobre dell'Anno
X, innanzi alle migliaia di Gerarchi venuti a Roma per il Decennale,
a Piazza Venezia, io domandai: questa crisi che ci attanaglia
da quattro anni - adesso siamo entrati nel quinto da un mese -
è una crisi "nel" sistema o "del" sistema?
Domanda grave, domanda alla quale non si poteva rispondere immediatamente.
Per rispondere è necessario riflettere, riflettere lungamente
e documentarsi. Oggi rispondo: la crisi è penetrata così
profondamente nel sistema che è diventata una crisi del
sistema. Non è più un trauma, è una malattia
costituzionale. Oggi possiamo affermare che il modo di produzione
capitalistica è superato e con esso la teoria del liberalismo
economico che l'ha illustrato ed apologizzato. Io voglio tracciarvi
a grandi linee quella che è stata la storia del capitalismo
nel secolo scorso, che potrebbe essere definito il secolo del
capitalismo. Ma prima di tutto, che cosa è il capitalismo?
Non bisogna fare una confusione tra capitalismo e borghesia. La
borghesia è un'altra cosa. La borghesia è come un
modo di essere che può essere grande e piccolo, eroico
e filisteo. Il capitalismo viceversa è un modo di produzione
specifico, è un modo di produzione industriale. Giunto
alla sua più perfetta espressione, il capitalismo è
un modo di produzione di massa per un consumo di massa, finanziato
in massa attraverso l'emissione del capitale anonimo nazionale
e internazionale. Il capitalismo è quindi industriale,
e non ha avuto nel campo agricolo manifestazioni di grande portata.
Io distinguerei nella storia del capitalismo tre periodi: il periodo
dinamico, il periodo statico, il periodo della decadenza. Il periodo
dinamico è quello che va dal 1830 al 1870. Coincide con
la introduzione del telaio meccanico e con l'apparire della locomotiva.
Sorge la fabbrica. La fabbrica è la tipica manifestazione
del capitalismo industriale, è l'epoca dei grandi margini,
e quindi la legge della libera concorrenza e la lotta di tutti
contro tutti può giocare in pieno. Ci sono dei caduti e
dei morti che poi la Croce Rossa raccoglierà. Anche in
questo periodo ci sono delle crisi, ma sono crisi cicliche, non
lunghe, non universali. Il capitalismo ha ancora tale vitalità
e tale forza di ricupero che le può superare brillantemente.
È l'epoca nella quale Luigi Filippo grida: "arricchitevi!".
L'urbanesimo si sviluppa. Berlino che faceva 100.000 abitanti
all'inizio del secolo raggiunge il milione; Parigi da 560.000
all'epoca della rivoluzione francese va anche essa verso il milione.
Così dicasi di Londra e delle città d'oltre Atlantico.
La selezione in questo primo periodo di vita del capitalismo è
veramente operante. Ci sono anche delle guerre. Queste guerre
non possono essere paragonate alla guerra mondiale che noi abbiamo
vissuta. Sono guerre brevi. Quella italiana del 1848-49 dura 4
mesi, il primo anno, 4 giorni il secondo; quella del 1859 dura
poche settimane. Altrettanto dicasi di quella del 1866. Né
più lunghe sono le guerre prussiane. Quella del 1864 contro
i Ducati di Danimarca dura pochi giorni, quella del 1866 contro
l'Austria, che è la conseguenza della prima, dura pochi
giorni e si conclude a Sadowa. Anche quella del 1870, che ha le
tragiche giornate di Sedan, non dura più di due stagioni.
Queste guerre, oserei dire, eccitano in un certo senso l'economia
delle Nazioni, tanto è vero che appena otto anni dopo,
nel 1878, la Francia è già nuovamente in piedi e
può organizzare l'Esposizione universale, avvenimento che
fece riflettere Bismarck. Quello che accadde in America, non lo
chiameremo eroico. Questa è parola che dobbiamo riservare
alle vicende di ordine esclusivamente militare; ma è certo
che la conquista del Far West è dura e fascinosa ed ha
avuto i suoi rischi ed i suoi caduti, come una grande conquista.
Questo periodo dinamico del capitalismo dovrebbe essere compresa
fra l'apparire della macchina a vapore e il taglio dell'istmo
di Suez. Sono quarant'anni. Durante questi quarant'anni lo Stato
osserva, è assente e i teorici del liberalismo dicono:
voi, Stato, avete un solo dovere, di far sì che la vostra
esistenza non sia nemmeno avvertita nel settore dell'economia.
Meglio governerete, quanto meno vi occuperete dei problemi di
ordine economico. L'economia quindi in tutte le sue manifestazioni
è delimitata solo dal Codice Penale e dal Codice di Commercio.
Ma dopo il 1870 questo periodo cambia. Non più la lotta
per la vita, la libera concorrenza, la selezione del più
forte. Si avvertono i primi sintomi della stanchezza e della deviazione
del mondo capitalistico. S'inizia l'era dei cartelli, dei sindacati,
dei consorzi, del trust. Certamente io non mi indugerò
perché voi possiate avvertire la differenza che passa fra
questi quattro istituti. Le differenze non sono rilevanti, o quasi.
Sono le differenze che passano fra le imposte e le tasse. Gli
economisti non le hanno ancora definite. Ma il contribuente che
va allo sportello trova che è completamente inutile discutere,
perché o tassa o imposta egli deve pagare. Non è
vero, come ha detto un economista italiano dell'economia liberale,
che l'economia trustizzata, cartellata, sindacata, sia il risultato
della guerra. No, perché il primo cartello carbonifero
in Germania, sorto a Dortmund, è del 1879. Nel 1905, dieci
anni prima che la guerra mondiale scoppiasse, in Germania si contavano
62 cartelli metallurgici. C'era un cartello della potassa nel
1904, un cartello dello zucchero nel 1903, dieci cartelli c'erano
nell'industria vetraria. Nel complesso, in quell'epoca, dai 500
ai 700 cartelli si dividevano in Germania il governo dell'industria
e del commercio. In Francia nel 1877 si costituisce l' Ufficio
Industriale di Longwy, che si occupava della metallurgia, nel
1888 quello del petrolio, nel 1881 tutte le Compagnie di Assicurazione
si erano già coalizzate. Il cartello del ferro, in Austria,
è del 1873; accanto ai cartelli nazionali si sviluppano
quelli internazionali. Il sindacato delle fabbriche di bottiglie
è del 1907. Quello delle fabbriche di vetri e specchi,
che raccoglie francesi, inglesi, austriaci e italiani, è
del 1909. I fabbricanti di rotaie ferroviarie si erano internazionalmente
incartellati nel 1904. II sindacato dello zinco nasce nel 1899.
Vi risparmio una lettura noiosa di tutti i sindacati chimici,
tessili, di navigazione ed altri che si sono formati in questo
periodo storico. Il cartello del nitrato tra inglesi e cileni
è del 1901. Qui ho tutto l'elenco dei trusts nazionali
ed internazionali, che vi risparmio. Si può dire che non
c'è settore della vita economica dei Paesi d'Europa e d'America
dove queste forze che caratterizzano il capitalismo non si siano
forniate. Ma quale è la conseguenza? La fine della libera
concorrenza. Essendosi ristretti i margini, l'impresa capitalistica
trova che piuttosto che lottare è meglio accordarsi, allearsi,
fondersi per dividersi i mercati, e ripartirsi i profitti. La
stessa legge della domanda e dell'offerta non è più
un dogma perché attraverso i cartelli ed i trusts si può
agire sulla domanda e sull'offerta; finalmente questa economia
capitalistica coalizzata, trustizzata, si rivolge allo Stato.
Che cosa gli chiede? La protezione doganale. Il liberismo, che
non è che un aspetto più vasto della dottrina del
liberalismo economico, il liberismo viene colpito a morte. Difatti
la Nazione che per prima ha elevato delle barriere quasi insormontabili,
è stata l'America. Oggi l'Inghilterra stessa, da alcuni
anni a questa parte, ha rinnegato tutto quello che ormai sembrava
tradizionale nella sua vita politica, economica e morale: e si
è data ad un protezionismo sempre più forte. Viene
la guerra. Dopo la guerra e in conseguenza della guerra, l'impresa
capitalistica si inflaziona. L'ordine di grandezza dell'impresa
passa dal milione al miliardo. Le cosiddette costruzioni verticali,
a vederle da lontano, danno l'idea del mostruoso e del babelico.
Le stesse dimensioni dell'impresa superano la possibilità
dell'uomo. Prima era lo spirito che aveva dominato la materia,
ora è la materia che piega e soggioga lo spirito. Quello
che era fisiologia diventa patologia, tutto diventa abnorme. Due
personaggi - poiché in tutte le vicende umane balzano all'orizzonte
gli uomini rappresentativi - due personaggi possono essere identificati
come i rappresentanti di questa situazione: Kreuger, il fiammiferaio
svedese, e Insull, l'affarista americano. Con quella verità
brutale che è nel nostro costume di fascisti, aggiungiamo
che anche in Italia ci sono state manifestazioni del genere: però,
nel complesso, non sono arrivate a quelle cime. Giunto a questa
fase il supercapitalismo trae la sua ispirazione e la sua giustificazione
da questa utopia: l'utopia dei consumi illimitati. L'ideale del
supercapitalismo sarebbe la standardizzazione del genere umano
dalla culla alla bara. Il supercapitalismo vorrebbe che tutti
gli uomini nascessero della stessa lunghezza, in modo che si potessero
fare delle culle standardizzate; vorrebbe che i bambini desiderassero
gli stessi giocattoli, che gli uomini andassero vestiti della
stessa divisa, che leggessero tutti lo stesso libro, che fossero
tutti degli stessi gusti al cinematografo, che tutti infine desiderassero
una cosiddetta macchina utilitaria. Questo non è un capriccio,
ma è nella logica delle cose, perché solo in questo
modo il supercapitalismo può fare i suoi piani. Quando
è che l'impresa capitalistica cessa di essere un fatto
economico? Quando le sue dimensioni la conducono ad essere un
fatto sociale. È questo il momento preciso nel quale l'impresa
capitalistica quando si trova in difficoltà si getta di
piombo nelle braccia dello Stato. È questo il momento in
cui nasce e si rende sempre più necessario l'intervento
dello Stato. E coloro che lo ignoravano lo ricercano affannosamente.
Siamo a questo punto: che se in tutte le Nazioni d'Europa lo Stato
si addormentasse per 24 ore, basterebbe tale parentesi per determinare
un disastro. Ormai non c'è campo economico dove lo Stato
non debba intervenire. Se noi volessimo cedere per pura ipotesi
a questo capitalismo dell'ultima ora, noi arriveremmo de piano
al capitalismo di Stato, che non è altro che il socialismo
di Stato rovesciato! Arriveremmo in un modo o nell'altro alla
funzionarizzazione della economia nazionale! Questa è la
crisi del sistema capitalistico preso nel suo significato universale.
Ma per noi vi è una crisi specifica che ci riguarda particolarmente
nella nostra qualità di italiani e di europei. C'è
una crisi europea, tipicamente europea. L'Europa non è
più il continente che dirige la civiltà umana. Questa
è la constatazione drammatica che gli uomini che hanno
il dovere di pensare debbono fare a se stessi e agli altri. C'è
stato un tempo in cui l'Europa dominava politicamente, spiritualmente,
economicamente il mondo. Lo dominava politicamente attraverso
le sue istituzioni politiche. Spiritualmente attraverso tutto
ciò che l'Europa ha prodotto col suo spirito attraverso
i secoli. Economicamente, perché era l'unico continente
fortemente industrializzato. Ma oltre Atlantico si è sviluppata
la grande impresa industriale e capitalistica. Nell'Estremo Oriente
è il Giappone che dopo aver preso contatto coll'Europa
attraverso la guerra del 1905, avanza a grandi tappe verso l'Occidente.
Qui il problema è politico. Parliamo di politica; perché
anche questa assemblea è squisitamente politica. L'Europa
può ancora tentare di riprendere il timone della civiltà
universale, se trova un minimum di unità politica. Occorre
seguire quelle che sono state le nostre costanti direttive. Questa
intesa politica dell'Europa non può avvenire se prima non
si sono riparate delle grandi ingiustizie. Siamo giunti ad un
punto estremamente grave di questa situazione; la Società
delle Nazioni ha perduto tutto quello che le poteva dare un significato
politico ed una portata storica. Intanto quello stesso che l'aveva
inventata non c'è entrato. Sono assenti la Russia, gli
Stati Uniti, il Giappone e la Germania. Questa Società
delle Nazioni è partita da uno di quei principi che, enunciati,
sono bellissimi: ma considerati poi, anatomizzati, sezionati,
si rivelano assurdi. Quali altri atti diplomatici esistono che
possano rimettere in contatto gli Stati? Locarno? Locarno è
un'altra cosa. Locarno non ha niente a che vedere con il disarmo;
di lì non si può passare. Si è fatto in questi
ultimi tempi un grande silenzio intorno al Patto a quattro. Nessuno
ne parla, ma tutti ci pensano. È appunto per questo che
noi non intendiamo di riprendere iniziative o di precipitare i
tempi di una situazione che dovrà logicamente e fatalmente
maturare. Domandiamoci ora: l'Italia è una Nazione capitalistica?
Vi siete mai posta questa domanda? Se per capitalismo si intende
quell'insieme di usi, di costumi, di progressi tecnici ormai comuni
a tutte le Nazioni, si può dire che anche l'Italia è
capitalista. Ma se noi andiamo più addentro alle cose ed
esaminiamo la situazione da un punto di vista statistico, cioè
della massa delle diverse categorie economiche delle popolazioni,
noi abbiamo allora i dati del problema che ci permettono di dire
che l'Italia non è una Nazione capitalista nel senso ormai
corrente di questa parola. Gli agricoltori conducenti terreno
proprio alla data del 21 aprile 1931 sono 2.943.000, gli affittuari
sono 858.000. I mezzadri e i coloni sono 1.631.000, gli altri
agricoltori salariati, braccianti, giornalieri di campagna, sono
2.475.000. Totale della popolazione che è legata direttamente
e immediatamente all'agricoltura 7.900.000. Gli industriali sono
523.000, i commercianti 841.000, gli artigiani dipendenti e padroni
724.000, gli operai salariati 4.283.000, il personale di servizio
e di fatica 849.000, le Forze Armate dello Stato 541.000, ivi
comprese, naturalmente, anche le forze di Polizia, gli appartenenti
alle professioni e arti libere 553.000, gli impiegati pubblici
e privati 905.000. Totale di questo gruppo con l'altro 17.000.000.
I possidenti e benestanti non sono molti in Italia, sono 201.000,
gli studenti sono 1.945.000, le donne attendenti a casa 11.244.000.
C'è poi una cifra che si riferisce ad altre condizioni
non professionali: 1.295.000, cifra che può essere interpretata
in varie maniere. Voi vedete subito da questo quadro come l'economia
della Nazione italiana sia varia, sia complessa, e non possa essere
definita attraverso un solo tipo, anche perché gli industriali
che figurano con la cifra imponente di 523.000 sono quasi tutti
industriali che hanno aziende di piccola e media grandezza. La
piccola azienda va da un minimo di 50 operai ad un massimo di
500. Dai 500 ai 5000 o 6000 vi è la media industria; al
di sopra si va alla grande industria, e qualche volta si sbocca
nel supercapitalismo. Questo specchietto vi dimostra anche come
avesse torto Carlo Marx il quale, seguendo i suoi schemi apocalittici,
pretendeva che la società umana si potesse dividere in
due classi nettamente distinte fra loro ed eternamente irriconciliabili.
L'Italia a mio avviso deve rimanere una Nazione ad economia mista,
con una forte agricoltura che è la base di tutto, tanto
è vero che quel piccolo risveglio delle industrie che si
è verificato in questi ultimi tempi è dovuto, come
è opinione unanime di coloro che se ne intendono, ai raccolti
discreti dell'agricoltura in questi ultimi anni; una piccola e
media industria sana, una banca che non faccia delle speculazioni,
un commercio che adempia al suo insostituibile compito che è
quello di portare rapidamente e razionalmente le merci ai consumatori.
Nella dichiarazione che io ho presentata ieri sera, era definita
la Corporazione così come noi la intendiamo e la vogliamo
creare, e sono definiti anche gli obbiettivi. Vi è detto
che la Corporazione è fatta in vista dello sviluppo della
ricchezza, della potenza politica e del benessere del popolo italiano.
Questi tre elementi sono condizionati fra di loro. La forza politica
crea la ricchezza, e la ricchezza ingagliardisce a sua volta l'azione
politica. Vorrei richiamare la vostra attenzione su quanto è
detto come obbiettivo: il benessere del popolo italiano. È
necessario che a un certo momento questi istituti che noi abbiamo
creati siano sentiti e avvertiti direttamente dalle masse come
strumenti attraverso i quali queste masse migliorano il loro livello
di vita. Bisogna che ad un certo momento l'operaio, il lavoratore
della terra possa dire a se stesso e dire ai suoi: se io oggi
sto effettivamente meglio, lo si deve agli istituti che la Rivoluzione
fascista ha creati. In tutte le società nazionali c'è
la miseria inevitabile. C'è una aliquota di gente che vive
ai margini della società; di essa si occupano speciali
istituzioni. Viceversa quello che deve angustiare il nostro spirito
è la miseria degli uomini sani e validi che cercano affannosamente
e invano il lavoro. Ma noi dobbiamo volere che gli operai italiani,
i quali ci interessano nella loro qualità di italiani,
di operaie di fascisti, sentano che noi non creiamo degli istituti
soltanto per dare forma ai nostri schemi dottrinarii, ma creiamo
degli istituti che devono dare a un certo momento dei risultati
positivi, concreti, pratici e tangibili. Non mi soffermo sui compiti
conciliativi che la Corporazione può svolgere, e non vedo
nessun inconveniente alla pratica dei compiti consultivi. Già
adesso accade che tutte le volte che il Governo deve prendere
dei provvedimenti di una certa importanza, chiama gli interessati.
Se domani ciò diventa obbligatorio per determinate questioni,
io non ci vedo alcun che di male, perché tutto ciò
che accosta il cittadino allo Stato, tutto ciò che fa entrare
il cittadino dentro l'ingranaggio dello Stato, è utile
ai fini sociali e nazionali del Fascismo. Il nostro Stato non
è uno Stato assoluto, e meno ancora assolutista, lontano
dagli uomini ed armato soltanto di leggi inflessibili come le
leggi devono essere. Il nostro Stato è uno Stato organico,
umano, che vuole aderire alla realtà della vita. La stessa
burocrazia non è oggi, e meno ancora domani vuol essere
un diaframma fra quella che è l'opera dello Stato e quelli
che sono gli interessi e i bisogni effettivi e concreti del popolo
italiano. Io sono certissimo che la burocrazia italiana, che è
ammirevole, la burocrazia italiana, così come ha fatto
fin qui, domani lavorerà con le Corporazioni tutte le volte
che sarà necessario per la più feconda soluzione
dei problemi. Ma il punto che più ha appassionato questa
assemblea è quello che intende dare al Consiglio Nazionale
delle Corporazioni dei poteri legislativi. Taluno, precorrendo
i tempi, ha già parlato della fine dell'attuale Camera
dei Deputati. Spieghiamoci. L'attuale Camera dei Deputati, essendo
ormai terminata la legislatura, deve essere sciolta. Secondo,
non essendovi il tempo sufficiente in questi mesi per creare i
nuovi istituti corporativi, la nuova Camera sarà scelta
con lo stesso metodo del 1929. Ma la Camera a un certo punto dovrà
decidere il suo proprio destino. Ci sono dei fascisti in giro
che vorranno piangere dinanzi a questa ipotesi? Comunque, sappiano
che noi non asciugheremo le loro lagrime. È perfettamente
concepibile che un Consiglio nazionale delle Corporazioni sostituisca
in toto la attuale Camera dei Deputati: la Camera dei Deputati
non mi è mai piaciuta. In fondo questa Camera dei Deputati
è oramai anacronistica anche nel suo stesso titolo: è
un istituto che noi abbiamo trovato e che è estraneo alla
nostra mentalità, alla nostra passione di fascisti. La
Camera presuppone un mondo che noi abbiamo demolito; presuppone
pluralità dei partiti, e spesso e volentieri l'attacco
alla diligenza. Dal giorno in cui noi abbiamo annullato questa
pluralità, la Camera dei Deputati ha perduto il motivo
essenziale per cui sorse. Nella loro quasi totalità i deputati
fascisti sono stati all'altezza della loro fede e bisogna pensare
che il loro sangue fosse sanissimo perché non si è
intristito in quegli ambienti dove tutto respira il passato. Tutto
ciò avverrà prossimamente perché non abbiamo
precipitazioni. Importante è di stabilire il principio
perché dal principio si traggono le conseguenze fatali.
Quando nel giorno 13 gennaio 1923 si creò il Gran Consiglio,
i superficiali avrebbero potuto pensare: si è creato un
istituto. No quel giorno fu sepolto il liberalismo politico. Quando
con la Milizia, presidio armato del Partito e della Rivoluzione,
quando con la costituzione del Gran Consiglio, organo supremo
della Rivoluzione, si diè di colpo a tutto quello che era
la teoria e la pratica del liberalismo, si imboccò definitivamente
la strada della Rivoluzione. Oggi noi seppelliamo il liberalismo
economico. La Corporazione giuoca sul terreno economico come il
Gran Consiglio e la Milizia giuocarono sul terreno politico Il
corporativismo è l'economia disciplinata, e quindi anche
controllata, perché non si può pensare a una disciplina
che non abbia un controllo. Il corporativismo supera il socialismo
e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi. È sintomatico
un fatto: un fatto sul quale forse non si è sufficientemente
riflettuto; che il decadere del capitalismo coincide col decadere
del socialismo! Tutti i partiti socialisti d'Europa sono in frantumi!
Non parlo dell'Italia e della Germania, ma anche di altri Paesi.
Evidentemente i due fenomeni, non dirò che fossero condizionati,
da un punto di vista strettamente logico; c'era però, fra
essi, una simultaneità di ordine storico. Ecco perché
l'economia corporativa sorge nel momento storico determinato,
quando cioè i due fenomeni concomitanti, capitalismo e
socialismo, hanno già dato tutto quello che potevano dare.
Dall'uno e dall'altro ereditiamo quello che essi avevano di vitale.
Noi abbiamo respinto la teoria dell'uomo economico, la teoria
liberale, e ci siamo inalberati tutte le volte che abbiamo sentito
dire che il lavoro è una merce. L'uomo economico non esiste,
esiste l'uomo integrale che è politico, che è economico,
che è religioso, che è santo, che è guerriero.
Oggi noi facciamo nuovamente un passo deciso sulla via della Rivoluzione.
Giustamente ha detto il camerata Tassinari che una rivoluzione
per essere grande, per dare una impronta profonda nella vita di
un popolo nella storia, deve essere sociale. Se ficcate il viso
nel profondo, voi vedete che la Rivoluzione francese fu eminentemente
sociale, perché demolì tutto quello che era rimasto
del Medioevo dai pedaggi alle corvées, sociale perché
provocò il vasto rivolgimento di tutto quello che era la
distribuzione terriera della Francia e creò quei milioni
di proprietari che sono stati e sono ancora una delle forze solide
e sane di quel Paese Altrimenti tutti crederanno di aver fatto
una rivoluzione. La rivoluzione è una cosa seria, non è
una congiura di palazzo e non è nemmeno un mutamento di
ministeri o l'ascesa di un partito che soppianti un altro partito.
È da ridere quando si legge che nel 1876 l'arrivo della
sinistra al potere fu definito una rivoluzione. Facciamoci da
ultimo questa domanda: il corporativismo può essere applicato
in altri Paesi? Bisogna farsi questa domanda, perché se
la fanno in tutti gli altri Paesi, dovunque si studia e ci si
affatica a comprendere. Non vi è dubbio che, data la crisi
generale del capitalismo, delle soluzioni corporative si imporranno
dovunque, ma per fare il corporativismo pieno, completo, integrale,
rivoluzionario, occorrono tre condizioni. Un partito unico, per
cui accanto alla disciplina economica entri in azione anche la
disciplina politica, e ci sia al di sopra dei contrastanti interessi
un vincolo che tutti unisce, in fede comune. Non basta. Occorre,
dopo il partito unico, lo Stato totalitario, cioè lo Stato
che assorba in sé, per trasformarla e potenziarla, tutta
l'energia, tutti gli interessi, tutta la speranza di un popolo.
Non basta ancora. Terza ed ultima e più importante condizione:
occorre vivere un periodo di altissima tensione ideale. Noi viviamo
in questo periodo di alta tensione ideale. Ecco perché
noi, grado a grado, daremo forza e consistenza a tutte le nostre
realizzazioni, tradurremo nel fatto tutta la nostra dottrina.
Come negare che questo nostro, fascista, sia un periodo di alta
tensione ideale? Nessuno può negarlo. Questo è il
tempo nel quale le armi furono coronate da vittoria. Si rinnovano
gli istituti, si redime la terra, si fondano le città.
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