Mentre
a Napoli si svolgeva il convegno del partito fascista, segretamente
si attuavano gli ultimi preparativi per dar luogo al colpo di stato
con la marcia su Roma. Era stato a tal fine costituito un quadrunvirato,
formato dai gerarchi Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi, Italo
Balbo e dal segretario del partito Bianchi. Il 27 ottobre 1922 fu
pubblicato il proclama, già preparato giorni prima direttamente
da Mussolini, con il quale iniziava la grande avventura fascista.
Questo comunicato diceva: "Fascisti di tutta Italia! L'ora della
battaglia decisiva è suonata. Quattro anni fa, l'Esercito Nazionale
scatenò di questi giorni la suprema offensiva che lo condusse
alla Vittoria: oggi, l'Esercito delle Camicie Nere riafferma la Vittoria
mutilata e, puntando disperatamente su Roma, la riconduce alla gloria
del Campidoglio. - Da oggi, principi e triari sono mobilitati. La
legge marziale del Fascismo entra in pieno vigore. - Dietro ordine
del Duce i poteri militari, politici ed amministrativi della Direzione
del Partito vengono riassunti da un Quadrunvirato segreto. d'Azione,
con mandato dittatoriale. - L 'Esercito, riserva e salvaguardia suprema
della Nazione, non deve partecipare alla lotta. - Il Fascismo rinnova
la sua altissima ammirazione all'Esercito di Vittorio Veneto. - Né
contro gli agenti della forza pubblica marcia il Fascismo, ma contro
una classe politica di imbelli e di deficienti che da quattro anni
non ha saputo dare un Governo alla Nazione. - Le classi che compongono
la borghesia produttrice sappiano che il Fascismo vuole imporre una
disciplina sola alla Nazione e aiutare tutte le forze che ne aumentino
l'espansione economica ed il benessere. Le genti del lavoro, quelle
dei campi e delle officine, quelle dei trasporti e dell'impiego, nulla
hanno da temere dal potere fascista. I loro giusti diritti saranno
sinceramente tutelati. Saremo generosi con gli avversari inermi; saremo
inesorabili con gli altri. Il Fascismo snuda la sua spada lucente
per tagliare i troppi nodi di Gordio che irretiscono ed intristiscono
la vita italiana. Chiamiamo Iddio sommo e lo spirito dei nostri cinquecentomila
morti a testimoni, che un solo impulso ci spinge, una sola volontà
ci accoglie, una passione sola c'infiamma: contribuire alla salvezza
ed alla grandezza della Patria. Fascisti di tutta Italia! Tendete
romanamente gli spiriti e le forze. Bisogna vincere. Vinceremo! Viva
l'Italia! Viva il Fascismo!" Frattanto i fascisti avevano stabilito
il loro comando strategico per la marcia su Roma a Perugia. In questa
città poche squadre fasciste circondarono la Prefettura e costrinsero
il prefetto ad arrendersi. Ciò avveniva il 27 sera. Il giorno
28 la cittadinanza di Perugia si svegliava apprendendo che i fascisti
avevano assunto i poteri governativi per l'intera provincia. Erano
state radunate per effettuare la marcia su Roma colonne fasciste per
un totale di ventiseimila uomini. Ma si trattava di ventiseimila uomini
male armati, inzuppati dall'acqua di un ottobre piovoso, e che con
facilità avrebbero potuto essere bloccati. Queste colonne comunque
dovevano concentrarsi nelle zone di Santa Marinella, Monte Rotondo
e Tivoli, per muovere di lì verso la capitale. Avrebbero dovuto
comandare le "truppe" fasciste Perrone-Compagni, affiancato
al generale Ceccherini, Igliori col generale Farra, ed il gerarca
Bottai. A Foligno infine erano state dislocate le magre riserve, al
comando del generale Zamboni. Nella realtà dei fatti lo Stato
sembrava voler cedere senza resistere: già dal 27 pomeriggio
le squadre fasciste si erano presentate presso le prefetture, le questure,
gli uffici telegrafici e telefonici, carceri, ed anche caserme, chiedendo
alle autorità di arrendersi. Eccetto qualche sporadico episodio
di resistenza, con facilità, queste, senza opporre la benchè
minima resistenza, si arresero alle "autorità" fasciste,
anche in considerazione del fatto che le squadre fasciste perseguivano
una politica di conciliazione, cercando di evitare nei limiti del
possibile lo scontro diretto con le forze militari, civili e di polizia:
In altri termini i fascisti cercarono sempre di parlamentare, senza
passare, eccetto casi sporadici, a vie di fatto. Questi 26 mila uomini
non avrebbero comunque mai potuto impensierire il Governo a Roma.
La capitale. era difesa da una guarnigione di 28 mila soldati, perfettamente
armati ed acquartierati, ed in grado senz' altro di bloccare il tentativo
insurrezionale. Ma, senza neppure fare intervenire l'esercito, fu
sufficiente interrompere le linee ferroviarie a Civitavecchia, Orte,
Avezzano, Segni, per bloccare l'avanzata dei fascisti, avanzata che
si svolgeva comodamente in treno. Bastarono inoltre quattrocento carabinieri
per congelare già completamente il tentativo fascista alle
porte di Roma. La sera del 27 ottobre, chiamato da Facta, giunse a
Roma il re; egli si trovava in ferie a San Rossore, ma era rientrato
subito per il precipitare degli eventi. A Facta, che lo ricevette
alla stazione ferroviaria, confermò la sua ferma volontà
di non cedere al ricatto dei fascisti, e di conseguenza gli ordinò
di prendere tutti i provvedimenti del caso per scongiurare il tentativo
di colpo di stato. Quella sera stessa Facta, in base alle direttive
reali, prese tutte le misure necessarie per dichiarare lo stato d'assedio,
e scongiurare il tentativo di colpo di stato di Mussolini. Fu quindi
preparato il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio, mentre
al Viminale si preparavano i telegrammi con le istruzioni alle prefetture
e venivano fatti stampare i manifesti dello stato d'assedio, da affiggere
nelle vie di Roma. All'alba del 28 si riunì il Consiglio dei
ministri; Facta parlò al suo Governo, e si decise, tutti concordi,
di proclamare lo stato d' assedio a decorrere dalle ore 12 del giorno
28. Il generale Pugliese, comandante il presidio di Roma, venne sollecitato
a prendere le misure necessarie per la difesa della capitale. Alle
8 del mattino vennero spediti i telegrammi ai prefetti, mentre Facta
si recò al Quirinale per conferire con il re, e fargli quindi
firmare il decreto della proclamazione dello stato d'assedio. Ma durante
la notte il re dovette consigliarsi con qualcuno che gli fece cambiare
idea: egli si mostrò titubante, e decise quindi di soprassedere
alla firma del decreto: volle pensarci su. Facta lasciò quindi
con un nulla di fatto il palazzo reale; nuovamente egli volle consultare
i suoi ministri. Il Consiglio dei ministri decise allora di lanciare
un proclama per far conoscere a tutti la posizione del Governo, e
le responsabilità che stavano maturando in sede non governativa.
Il proclama diceva: "Manifestazioni sediziose avvengono in alcune
provincie d'Italia, coordinate al fine di ostacolare il funzionamento
dei poteri dello Stato e di gettare il paese nel più grave
turbamento. Il Governo fino a quando era possibile, ha cercato tutte
le vie di conciliazione nella speranza di ricondurre la concordia
negli animi. Di fronte ai tentativi insurrezionali, esso, dimissionario,
ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi ed a qualunque costo l'ordine.
E questo dovere compirà per intero, a salvaguardia dei cittadini
e delle libere istituzioni costituzionali. Intanto i cittadini conservino
là calma ed abbiano fiducia nelle misure di pubblica sicurezza
che sòno state adottate. Viva l'Italia!- Viva il Re!"
Il proclama fu affisso nelle sole vie di Roma, infatti non fu possibile
divulgarlo a livello nazionale, essendo stata bloccata in tutta Italia
l'uscita dei giornali, essendo state occupate ovunque le sedi telegrafiche
e telefoniche. Alle 13 del giorno 28, Facta ritornò dal re,
sollecitando nuovamente la firma dello stato d'assedio. Questa volta
il re aveva già presa la sua decisione: non avrebbe firmato
il decreto di stato d'assedio. Si trattò di una desione molto
grave, contraria alla volontà del Governo, configurante quindi
l'ipotesi di reato di alto tradimento da parte del re, che con questa
sua desione andò contro la Costituzione, alla quale aveva egli
pure giurato fedeltà. CosÌ si aprì la via al
fascismo, che altrimenti, secondo l'unanime giudizio degli storici,
non avrebbe potuto con tanta facilità conquistare il potere.
E' stata avanzata l'ipotesi che a consigliare il re a non firmare
lo stato d'assedio, sia stato il generale Diaz. Sembrerebbe infatti
che Diaz dubitasse, dopo le esperienze fiumane, della fedeltà
delle truppe regolari. -Egli avrebbe detto al re: "Maestà,
l'esercito è fedele, tuttavia è meglio non metterlo
alla prova. Frattanto intermediari nazionalisti e fascisti si davano
da fare, tranquillizzando il re, che era ancora possibile risolvere
la crisi senza ricorrere ad un atto di forza. Vittorio Emanuele III,
uomo spesso poco risoluto, ed in ogni caso amante della propria tranquillità,
non chiedeva di meglio che affidare il potere ad un uomo energico,
e di salvare la corona, che egli vedeva traballare. Da questo momento
tutta la politica italiana si svolse in un'aria da pantomima: da una
parte Mussolini, ormai certo della vittoria, chiedeva tutto, e quindi
la totale abdicazione dei poteri dello Stato al suo volere; dall'
altro canto stava un re indeciso e sgomento che certava soltanto di
salvare almeno le parvenze di rispetto costituzionale. Il re riaprì
quindi le consultazioni, per risolvere la nuova crisi ministeriale,
ricevendo De Nicola, De Vecchi, Orlando, Salandra, Facta e molti altri.
I suggerimenti della maggior parte del leader politici consultati,
designavano Giolitti, come l'unico uomo politico di prestigio, in
grado in quel momento di risolvere la gravissima situazione. Ma a
tutti il re dette risposte evasive e nel complesso negative. Egli
aveva perduto del tutto la sua fiducia nell'anziano statista. Si andò
delineando quindi la possibilità di un governo formato da Salandra
e Mussolini. Ma quest'ultimo, che rimaneva ostinatamente a Milano,
avvertito telefonicamente dell'intenzione del re, fece sapere che
i fascisti volevano il Governo, e che non era affatto accettabile
un binomio con Salandra. Il giorno 29 ottobre Mussolini, ormai certo
della vittoria, pubblicò sul Popolo d'Italia un articolo con
il quale fece conoscere le sue pretese totali, esclusive, di conquista
del potere. Vale la pena rileggere questo articolo, che dimostra sino
a qual punto potè giungere la tracotanza di Mussolini, e sino
a qual punto potè giungere la pusillanimità della vecchia
classe politica italiana, che a lui si contrapponeva. "La situazione
è questa: - scriveva Mussolini - gran parte dell'Italia Settentrionale
è in pieno potere dei fascisti. L'Italia Centrale - Toscana,
Umbria, Marche, Alto Lazio - è tutta occupata dalla "Camicie
Nere". Dove non sono state prese d'assalto le Questure e le Prefetture,
i fascisti hanno occupato stazioni e poste, cioè i grandi centri
nervosi della vita della Nazione. L'Autorità politica - un
poco sorpresa e molto sgomentata - non e stata capace di fronteggiare
il movimento, perchè un movimento di questo genere non si contiene
e meno ancora si schiaccia. La vittoria si delinea vastissima tra
il consenso quasi unanime della Nazione. Ma la vittoria non può
essere mutilata da combinazioni dell'ultima ora. Per arrivare a una
transazione Salandra, non valeva la pena di mobilitare. Il Governo
dev'essere nettamente fascista. Il Fascismo non abuserà della
sua vittoria, ma intende che non venga diminuita. Ciò sia ben
chiaro a tutti. Niente deve turbare la bellezza e la foga del nostro
gesto. I fascisti sono stati e sono meravigliosi. Il loro sacrificio
è grande e dev'essere coronato da una pura vittoria. Ogni altra
soluzione è da respingersi. Comprendano gli uomini di Roma
che è ora di finirla coi vieti formalismi mille volte, e in
occasioni non gravi, calpestati. Comprendano che sino a questo momento
la soluzione della crisi può ottenersi rimanendo ancora nell'ambito
della più ortodossa costituzionalità, ma che domani
sarà forse troppo tardi. L'incoscienza di certi politici di
Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. Si decidano! Il
Fascismo vuole il potere e lo avrà!"
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Sfilata dei quarantamila
fascisti a Napoli
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